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"citra Placentiam in collibus oppidum est
Veleiatium"
sulle colline di qua da Piacenza vi è la città dei veleiati
(Plinio, Nat. Hist. VII 163)
Nota alle fonti antiche, della città romana di Velia e del luogo ove sorgeva si era persa, nei secoli, memoria. Solo il caso volle che, nel 1747, Giuseppe Rapaccioli, Arciprete della Pieve di S. Antonino in località Macinesso, trovasse, ad ovest della chiesa, i frammenti di una grande una tavola di bronzo iscritta. Ignorando il valore dell’iscrizione e nell’intento di ricavarne una buona somma di denaro, i frammenti di bronzo furono venduti, com’era usanza dell’epoca, a diverse fonderie della zona. La tavola sarebbe andata, pertanto, inesorabilmente perduta (e probabilmente fusa, secondo le notizie del tempo, per dotare la Cattedrale di Fidenza di una nuova campana) se un frammento non fosse venuto fortuitamente in mano ad uno studioso dell’epoca, il conte Roncovero, che, riconosciutane l'antichità, propose al conte Antonio Costa, Canonico della Cattedrale di Piacenza, di acquistare insieme i pezzi dispersi.
Veduta aerea degli scavi della città romana di Veleia
Due anni dopo, gli studiosi Lodovico Muratori e Scipione Maffei pubblicarono,
separatamente, l’iscrizione, riconoscendovi la Tabula Alimentaria traianea,
contenente le disposizioni del prestito fondiario ipotecario voluto da Nerva e
Traiano, i cui interessi venivano devoluti per il sostentamento dei fanciulli
indigenti della città.
Il Muratori intuì anche, dalla lettura della Tabula, che il sito della scoperta,
nonché luogo beneficiato dal prestito ipotecario, doveva corrispondere a quello
ove sorgeva l’antica città di Veleia.
L’interesse per l’eccezionale ritrovamento fu tale che, nel 1760, il duca di
Parma don Filippo I di Borbone, rivaleggiando con il fratello Carlo III che in
quegli stessi anni cominciava l’esplorazione di Pompei, diede avvio agli scavi
ufficiali. Pochi mesi dopo fondò, per accoglierne gli straordinari reperti, il
Ducale Museo di Antichità, oggi Museo Archeologico Nazionale di Parma.
Questo primo, fondamentale, ciclo di scavi, diretti da Antonio Costa prima e
Paolo Maria Paciaudi poi, durò fino al 1765. Nel corso di soli cinque anni fu
portata in luce la quasi totalità della città superstite: nel 1760 si scavò il
foro con i portici adiacenti; nel 1761 l’indagine interessò la basilica, con la
straordinaria scoperta delle dodici statue del ciclo giulio-claudio; negli anni
successivi gli scavi si estesero alle terrazze superiori, ove fu portato in luce
l’impianto termale e ai circostanti quartieri di abitazione.
Parallelamente al diminuire di nuove scoperte eclatanti si ebbe un progressivo
disamore della corte per gli scavi veleiati, che si interruppero con la morte
del duca Filippo I.
Gli scavi ripresero solo nel 1800, prima per volere di Maria Luigia d’Austria,
quindi grazie all’impegno dei direttori del Museo di Parma. Nel 1876 Giovanni
Mariotti, estendendo le indagini ad una zona a nord-est dell’abitato romano,
rinvenne la necropoli ligure a incinerazione.
"Vestigj dell'antica città di Veleia", 1765
Nuovamente, nulla di notevole si può registrare sul versante delle scoperte fino
all’avanzato dopoguerra. L’attività dei diversi direttori succedutisi alla guida
degli scavi, tra cui Giorgio Monaco e Salvatore Aurigemma, si concentrò
soprattutto sui restauri degli edifici.
Con gli anni Sessanta comincia l’ultima fase delle indagini, condotte con metodi
moderni e precisi intenti filologici da Antonio Frova e Mirella Marini Calvani,
a lui succeduta nella direzione del Museo e nominata poi Soprintendente ai Beni
Archeologici della regione. L’opera di restituzione e di attento controllo delle
murature antiche ha consentito la definizione delle diverse fasi dello sviluppo
edilizio di Veleia e la puntuale lettura di alcuni edifici, quali il cosiddetto
anfiteatro, che correttamente identificato nel 1763 come cisterna o castellum
acquae, fu poi interpretato come anfiteatro già agli inizi dell’Ottocento e come
tale restaurato.
La fondazione della città romana di Veleia è frutto di un disegno politico.
Domata nel 158 a.C. la resistenza dei Ligures Veleiates, che per circa
ottant’anni si erano opposti all’espansione di Roma, Veleia nacque in funzione
di controllo e di amministrazione di un vasto territorio montano esteso dalla
Valle del Taro a quella del Trebbia. Sul luogo esisteva, inoltre, un
preesistente centro indigeno, di cui sono testimonianza le più antiche tombe
scoperte nel 1876, dall’allora direttore del Muso di Parma Giovanni Mariotti, a
nord-est del foro.
Divenuta municipio romano poco dopo la metà del I secolo a.C. e ottenuta,
quindi, la piena cittadinanza con l’iscrizione alla tribù Galeria di Genova,
Luni e Pisa, la città visse, con la prima età imperiale, una straordinaria fase
di sviluppo edilizio e monumentale.
Il particolare legame che la legò alla famiglia Giulio-Claudia è illustrato dal
ciclo statuario della basilica, mentre nel foro, fulcro della vita politica e
civile, si moltiplicarono i monumenti onorari, simbolo dell’omaggio all’autorità
centrale.
La floridezza della città non dovette durare, però, che pochi secoli. Già nella
prima metà del II secolo d.C. la concessione dell’istituzione degli Alimenta di
Traiano testimonia, nello stesso tempo, l’attenzione che Roma continuava a
dedicare a questo comparto montano e la sua progressiva crisi economica. Il
catasto della Tabula Alimentaria rivela, infatti, la concentrazione della
proprietà agraria in mano a pochi proprietari fondiari, non sempre di origine
locale e talora liberti, l’alta percentuale di terreni lasciati a pascolo e a
bosco e il conseguente impoverimento dei piccoli proprietari, spesso ridotti in
stato di grave indigenza.
I dati toponomastici e onomastici tradiscono, infine, il persistere di un
contesto mai pienamente romanizzato: accanto ai nomi latini figurano, infatti,
cognomi quali Ligurinus e Ligus e toponimi quali Bagiennus
e Statiellus (dal nome di due popolazioni liguri note dalle fonti
antiche), di chiara origine ligure, nonché elementi di ascendenza celtica, come
Noviodunos (dal celtico novio = nuovo e dunos = fortezza), a ricordo
delle invasioni galliche. Anche l’appellativo di Augusta che designò Veleia sin
dalla prima età imperiale distingue una città romana in un contesto mai
pienamente romanizzato.
Nel III secolo d.C. la crisi è ormai evidente: il documento epigrafico più
recente trovato a Veleia è del 276 e solo l’esame delle monete tardo-imperiali
trovate nel sito ne accertano la sopravvivenza almeno fino al V secolo d.C. Pur
non escludendo il concorso di fenomeni naturali, in particolare quei movimenti
franosi cui il luogo fu sempre soggetto il luogo (Moria e Rovinasso sono i nomi
delle due cime che sovrastano Veleia), la fine della città è da inquadrarsi
nell’ambito del generale abbandono dei luoghi e spopolamento dell’Italia,
devastata dalle guerre e travolta dal crollo dell’Impero Romano di Occidente.
Sul sito dell’antica Veleia, ormai sepolta, sorgerà la Pieve di Sant’Antonino,
che ancora sovrasta l’area archeologica.
Posta a circa 460 metri di altitudine, Veleia si presenta come un tipico
centro di un distretto montano, con gli edifici articolati su un sistema di
terrazze in parte naturali e in parte artificiali, in cui attorno al Foro sono
raggruppati gli edifici essenziali alla vita civile associati a poche dimore
delle famiglie più potenti.
La città è giunta fino a noi nell’aspetto che assunse in età imperiale: tracce
delle più antiche fasi di età repubblicana sono venute in luce nei quartieri
settentrionali e occidentali, mentre del primitivo impianto urbano, disposto
secondo la pendenza naturale del terreno, rimane testimonianza in una serie di
edifici, visibili in pianta, in posizione obliqua rispetto all’orientamento del
foro.
Centro civile, sociale e religioso della città, il Foro si presenta come una
piazza porticata, pavimentata con grandi lastroni di arenaria. Sui due lati
lunghi si affacciavano le tabernae, le botteghe costituite da semplici ambienti
rettangolari, affiancati l’uno all’altro.
Il Foro era chiuso a sud dalla basilica, complemento ideale dell’area forense,
ove si amministrava la giustizia e si adempivano i principali uffici pubblici.
L’edificio, dotato di un duplice ingresso, era a navata unica, con due esedre
rettangolari alle estremità, separate dall’aula centrale da una duplice coppia
di colonne. Al centro della sala principale, a ridosso del muro meridionale, si
sviluppava un lungo podio sul quale furono collocate in antico le statue in
marmo lunense raffiguranti i membri della famiglia imperiale giulio-claudia.
Dopo la metà del I secolo d.C. fu aperto sul lato settentrionale, opposto alla
basilica, un ingresso monumentale, con colonnato su due fronti, che mise in
collegamento il portico interno del foro con un nuovo portico costruito su di un
lungo basamento che costeggiava esternamente, in senso est-ovest, gli edifici
settentrionali del foro, a destinazione sicuramente pubblica e caratterizzati da
una lunga e complessa serie di rifacimenti.
Sulla terrazza superiore, prospiciente la basilica, sono invece visibili i resti
di un edificio termale, di età imperiale e, di fronte, il quartiere di
abitazione meridionale, in cui si distingue la domus del cinghiale, tipico
esempio di casa romana ad atrio.
Veleia - I resti dell'impianto termale
Di notevole qualità i bronzi figurati prodotti per la maggior parte da officine localizzabili nell’Italia settentrionale, tra cui la testa di imperatore, probabilmente di Antonino Pio (138-161 d.C.), in bronzo dorato, esposta nella IV, la Vittoria alata (I secolo d.C.), sicuramente parte di un monumento onorario e la statuetta votiva dell’Ercole Ebbro (II secolo d.C.), con dedica di L. Domizio Secundione a un sodalizio di devoti al culto di Ercole.
Il bronzetto della Vittoria Alata, I secolo (a sinistra) e quello di Ercole
Ebbro, II secolo (a destra)
Allineate sul podio addossato alla parete di fondo della basilica che chiude
a sud il foro, le dodici statue in marmo lunense raffiguranti i membri della
famiglia imperiale giulio-claudia furono collocate con evidenti finalità
commemorative, intese a celebrare il lealismo politico della piccola comunità.
Le statue erano accompagnate da tabelle con dediche, solo cinque delle quali,
tuttavia, superstiti. Il ciclo statuario documenta con una certa imponenza la
diffusione del culto della dinastia giulio-claudia in Italia settentrionale e
della propaganda ad esso legata. Nel caso di Veleia il rapporto con la corte è
reso particolarmente stretto dalla figura di L. Calpurnio Pisone, fratello di
Calpurnia moglie di Giulio Cesare e patrono del centro. Il culto della famiglia
imperiale è qui caratterizzato da una forte carica religiosa, come testimonia la
preponderanza di statue togate e velato capite.
Il ciclo appare realizzato in più tempi. Durante il principato di Tiberio fu
eretto il primo gruppo, costituito dall’immagine di Tiberio (acefala),
accompagnata dai ritratti idealizzati di Augusto e della moglie Livia, madre di
Tiberio; da quelli dei due Drusi, Maggiore e Minore, rispettivamente fratello e
figlio dell’imperatore, nonché da quello, realistico, di Lucio Calpurnio Pisone
il Pontefice, cognato di Cesare, patrono dei Veleiati, probabile promotore
dell’iniziativa. Il tipo iconografico della statua di L. Calpurnio Pisone è
quello del pontefice velato capite, secondo il modello del ritratto di Via
Labicana. L’identificazione della statua di Augusto, così come di quella di
Livia, entrambe acefale, è resa possibile, oltre che dai dati stilistici, dal
rinvenimento delle corrispondenti tabelle con dedica.
Un secondo gruppo comprende la statua di Caligola, a cui dopo la damnatio
memoriae è stata sostituita la testa con quella di Claudio e quelle della
sorella, Drusilla e della madre dell’imperatore, nonché moglie di Germanico,
Agrippina maggiore.
Statue di personaggi della famiglia imperiale giulio-claudia (prima metà del I
sec. d.C.)
Di un terzo gruppo fanno parte il ritratto di Claudio, posto sulla statua di
Caligola; quello dell’ultima moglie di Claudio, Agrippina Minore, nonché
l’immagine del figlio ancora bambino di quest’ultima, Nerone.
Da ultimo, l’identificazione della statua di loricato, che ha come modello di
riferimento l’Augusto di Prima Porta, è ancora controversa: gli studiosi si
dividono tra Germanico, e in questo caso la statua sarebbe pertinente alla prima
fase del ciclo e Domiziano. La testa risulta comunque rilavorata, forse in onore
di Nerva.
La grande tavola di bronzo (m 1,38 x 2,86) rinvenuta nel 1747 a Veleia
costituisce un documento di eccezionale valore che testimonia l’istituzione per
la città degli alimenta, ossia di un prestito ipotecario offerto ai proprietari
fondiari della zona, i cui interessi erano destinati al mantenimento dei
fanciulli e delle fanciulle indigenti.
L’episodio faceva parte di una più grande operazione finanziaria, ideata
dall’imperatore Nerva (96-98 d.C.) e sviluppata poi da Traiano (98-117 d.C.),
che doveva contribuire a incoraggiare il sostentamento dei giovani, al fine di
assicurare future generazioni di soldati e di funzionari di condizione cittadina
e di nascita italica.
Il tentativo era quello di arrestare la decadenza demografica ed economica
dell’Italia che, all’inizio del II secolo d.C., a causa della concorrenza delle
vicine province, della pressione fiscale che aumentava di pari passo con
l’espandersi dell’impero e delle sempre nuove necessità di guerra, era tale da
farla divenire una regione secondaria dell’impero.
Le istituzioni alimentarie furono fatte per serie successive: nel 101 d.C. fu il
turno di Benevento, come testimonia la tabula dei liguri Baebiani, (popolazione
ligure lì deportata a seguito della loro definitiva sconfitta), rinvenuta nel
1831 a nord della città campana, nonché del primo prestito per Veleia; nel 102
toccò a Ferento, cui seguì nuovamente Veleia.
La Tabula alimentaria - Contiene le disposizioni dell’imperatore Traiano per
l’istituzione di un prestito ipotecario concesso direttamente dal patrimonio
personale dell’imperatore
Ma come si svolgeva, in concreto, il complesso meccanismo finanziario di
devoluzione del prestito e di riscossione degli interessi?
La Tabula alimentaria contiene le disposizioni dell’imperatore (ex indulgentia
optimi maximique principis) per l’istituzione di un prestito ipotecario (obligatio
praedorium) concesso direttamente dal patrimonio personale dell’imperatore (il
fiscus). Il prestito, probabilmente a fondo perduto, era suddiviso in due
blocchi di obbligazioni, rispettivamente di 1.044.000 (tra il 106 e il 114 d.C.)
e 72.000 sesterzi (del 101 d.C.). Gli interessi, calcolati nella misura del 5%
annuo, erano convogliati in sede municipale e distribuiti, in contanti o in
natura (frumento), a 245 figli e 34 figlie legittimi, cui si aggiungono un
figlio e una figlia illegittimi.
Il sussidio corrispondeva all’incirca al minimo vitale di mantenimento: i figli
legittimi ricevevano ciascuno 16 sesterzi mensili, le legittime 12 sesterzi come
l’unico maschio illegittimo, mentre l’unica femmina illegittima prendeva 10
sesterzi. I fanciulli dovevano essere minorenni, presumibilmente inferiori ai 18
anni se maschi e ai 14 se femmine.
Quanto al prestito fondiario, di esso potevano beneficiare oltre ai proprietari
veleiati anche quelli delle città vicine, Piacenza, Parma, Libarna e Lucca; la
somma del prestito era distribuita in proporzione ai possedimenti.
I proprietari sono elencati in oltre sei colonne, secondo uno schema regolare:
per ogni obbligazione sono riportati il nome del proprietario contraente il
prestito e quello dell’eventuale intermediario incaricato della dichiarazione (descriptio),
la stima delle proprietà date in pegno (aestimatio) e la somma corrisposta
dall’amministrazione per conto dell’Imperatore. Del terreno offerto in garanzia
è indicato il nome (vocabulum) del fondo e di almeno due proprietà confinanti,
l’uso del suolo, le eventuali pertinenze (fattorie, ovili, fornaci), la
localizzazione topografica nel distretto (pagus) e, nel caso, nell’ambito più
ristretto del vicus.
La Tabula Alimentaria offre uno spaccato unico della situazione dell’Appennino
piacentino agli inizi del II secolo d.C.: rivela, in particolare, la progressiva
costituzione di grandi proprietà fondiarie, sebbene resistano ancora
appezzamenti più piccoli e l’alta percentuale di terreni lasciati a pascolo e a
bosco, a riprova della preponderanza delle attività silvo-pastorali rispetto a
quelle agricole.
I dati toponomastici e onomastici tradiscono, infine, il persistere delle
popolazioni locali: accanto ai nomi latini figurano, infatti, cognomi quali
Ligurinus e Ligus e toponimi quali Bagiennus e Statiellus (dal nome di due
popolazioni liguri note dalle fonti antiche), di chiara origine ligure, nonché
elementi di ascendenza celtica, come Noviodunos (dal celtico novio = nuovo e
dunos = fortezza), a ricordo delle invasioni galliche.
Il foro costituiva il centro commerciale, sociale, legale e politico della città romana: su di esso si affacciavano sia i principali edifici civili, quali la basilica e la curia (la sede del senato), sia le botteghe del commercio. In esso si ergevano anche i più importanti monumenti onorari della città.
Il foro della città romana di Veleia
A Veleia, lungo l’asse maggiore della piazza sono ancora in posto le basi di due
statue equestri dedicate, rispettivamente, agli imperatori Claudio, nel 42 d.C.
e Vespasiano, nel 71 d.C., mentre un cippo in marmo rosso di Verona fu
consacrato da un membro del collegio dei sèviri augustali, preposto al culto
degli imperatori. Lungo il portico orientale furono erette, nel III secolo d.C.,
le basi di due statue onorarie dedicate, una a Tranquillina, moglie di Gordiano
Pio e all’imperatore Probo e l’altra ad Aureliano.
Nel complesso forense erano collocate, inoltre, anche tutte le iscrizioni che,
per motivi onorari, politici o religiosi potevano o dovevano essere
pubblicamente esposti, quali l’iscrizione onoraria di Coelio Festo, patrono
della città (esposta nella prima sala), la Tabula Alimentaria all’ingresso della
basilica e, tra le rovine del portico occidentale, la più piccola tavola bronzea
recante parte della lex de Gallia Cisalpina. (49 a.C.). Testo prezioso per la
conoscenza del processo civile romano (solo di poche leggi repubblicane sono
giunte sino a noi alcuni frammenti), la legge regolava le competenze dei
magistrati romani della provincia, che avevano la facoltà di giudicare in cause
il cui oggetto non superasse il valore di 15.000 sesterzi.
Nel foro trovavano spazio anche le iscrizioni e i monumenti che ricordavano
particolari benemerenze dei cittadini, tra cui quella di avere costruito o
abbellito opere pubbliche.
Circa a metà del lastricato, un’iscrizione, di cui rimangono le impronte delle
lettere di bronzo che erano originariamente infisse nelle lastre di arenaria,
ricorda l’opera di evergetismo di Lucio Lucilio Prisco, della tribù Galiera, per
due volte massimo magistrato locale (duoviro), che fece pavimentare a sue spese
il foro: L(ucius) Lucilius L(ucii) f(ilius) Gal(eria tribu) Priscus (duo)vir (iterum)
gratui[to factus forum] laminis d(e) p(ecunia) s(ua) stravit.
Negli ambienti retrostanti il portico occidentale, ai piedi di una stanza
affrescata, è venuta in luce l’iscrizione che ricorda il dono del chalcidicum,
probabilmente il portico stesso, da parte della cittadina Baebia Basilla:
Baebia T(iti) [f(ilia) Ba]silla c<h>alchidicum municipibus suis dedit. Nella
stessa area è stata trovata anche la testa di fanciulla (fine I secolo a.C.),
esposta nella prima sala, forse il ritratto della stessa munifica Baebia Basilla.
Dagli ambienti a nord del portico, probabilmente a destinazione pubblica,
proviene infine il brano di pittura murale di terzo stile pompeiano,
raffigurante un giardino chiuso da graticci (inizi I secolo d.C.).
Elementi di mobilio, vasellame, strumenti e oggetti di ornamento, anche se spesso privi del contesto originario di appartenenza, consentono di ricostruire il buon tenore di vita della città veleiate (Vetrina 1).
Patera baccellata in vetro murrino (fine I sec. a.C - inizi I sec. d.C.)
La città era dotata, innanzitutto, di un complesso sistema di raccolta e
distribuzione dell’acqua, che dalla grande cisterna (il castellum acquae) posta
a monte degli edifici veniva convogliata a valle e distribuita ai diversi
impianti idrici, indiziati dal rinvenimento di tubazioni (fistulae) in piombo,
sifoni in bronzo, bocche di fontane. La salubrità dei luoghi era garantita
dall’efficacia dello smaltimento delle acque piovane, come attestato dai canali
di scolo che costeggiano il foro, ancora oggi perfettamente funzionanti.
E’ attestato anche l’uso di lastre di vetro con infissi in legno per la chiusura
di finestre e, negli edifici termali o di destinazione pubblica, quello di
strutture per il riscaldamento, generalmente costituite da vani con colonnine
fittili che, poggiando su di un sottopavimento di mattoni, reggevano il
pavimento sospeso dei locali (suspensura) e creavano un’intercapedine (hypocaustum)
in cui passava l’aria calda prodotta della combustione che avveniva in un vicino
forno a legna. L’aria calda e i fumi di combustione erano quindi convogliati in
tubi di terracotta, inseriti nello spessore delle pareti perimetrali, che ne
consentivano il rilascio all’esterno.
Le case rispecchiano, sia nell’architettura che negli arredi interni, la
concezione sociale che i romani avevano dell’abitazione: uno spazio non solo
privato ma anche di rappresentanza, in cui la manifestazione della ricchezza e
del potere era parte integrante del sistema che regolava i rapporti sociali tra
i notabili (patroni) e i cittadini comuni a loro legati (clientes). Questi
ultimi, venivano ricevuti negli ambienti della domus destinati appositamente
alle visite: l’atrium e il tablinum.
Proprio in questi ambienti di rappresentanza era più frequente l’utilizzo di
mosaici pavimentali e di suppellettili di pregio, quali le lucerne di bronzo,
utilizzate da sole o su sostegni come i candelabri. Di uso più comune, invece,
le lucerne in terracotta.
Mosaico policromo con maschera teatrale, proveniente dall’estremo quartiere
abitativo occidentale.
Del pavimento musivo in opus signinum (cocciopesto), di età augustea, rimane
soltanto l’emblema (la parte centrale) che presenta, all’interno di una cornice
geometrica articolata su più fasce, una maschera femminile, motivo con valenze
apotropaiche comune tra i mosaici di età romana
Colpisce, comunque, l’alto livello dei bronzi rinvenuti a Veleia, siano essi di
produzione cisalpina, come il busto femminile entro clipeo circolare, l’applique
con busto di guerriero o il piede di mobile con guerriero in combattimento o
provengano dall’Italia meridionale come la brocca (pelike) in bronzo ageminato
d’argento (I secolo a.C.) o addirittura dal Mediterraneo orientale come le
appliques con busto di sileno e busto giovanile di letto triclinare.
Nella vita privata gli agi e i lussi quotidiani si esprimevano innanzitutto nei
molteplici oggetti per la cura del corpo (Vetrina 2): unguentari e balsamari in
vetro; strigili per detergersi dalla polvere e dal sudore dopo gli esercizi
ginnici o dall’eccesso di oli e unguenti dopo il bagno; spatole, pinzette e
oggetti di cosmesi e da toeletta in genere. Fibule, anelli, spilloni
rappresentavano gli indispensabili ornamenti per le vesti e le pettinature.
Non può mancare, infine, la testimonianza dei culti domestici. In tutte le
abitazioni romane, infatti, per ricche o modeste che fossero, erano sempre
presenti piccoli altari (larari), per il culto degli antenati e delle divinità
protettrici della casa, i lari. La statuetta di offerente a capo velato (prima
metà I secolo d.C.) si configura come una trasposizione in ambito domestico dei
riti della religione ufficiale e del culto degli imperatori.
Nella piena età imperiale si afferma, poi, la venerazione della dea egiziana
Iside spesso identificata con la dea Fortuna.
Testo di Monica Miari (Direttrice dell'area archeologica di Veleia)