Un santuario, un culto, una dea
A Sassuolo una mostra illustra gli scavi e il tempio dedicato a Minerva rinvenuto
a Montegibbio, nel modenese
MINERVA MEDICA
Un santuario romano a Montegibbio
Galleria Paggeriarte in Piazzale della Rosa a
Sassuolo (MO)
dal 18 settembre al 18 ottobre 2015
per gli orari di apertura clicca qui
Info Comune di Sassuolo tel. 0536 1844801
urp@comune.sassuolo.mo.it
Ciotola in ceramica con incisione [Eg]O MINER(vae) SUM, “Io sono dedicata a
Minerva”
Nelle epigrafi latine di età romana rinvenute in Aemilia, Minerva, oltre ad essere
invocata dai devoti come dea Sanctissima ed Augusta, è ricordata come
Minerva Memor e Medica. Memor perché ricorda le preghiere e ammonisce i fedeli, Medica
perché cura i propri fedeli grazie ai benefici influssi delle acque, dei fanghi
e delle polle di petrolio che le sono consacrati.
Minerva Medica è una mostra incentrata sul culto della dea e sui reperti
recuperati in un santuario romano a lei dedicato rinvenuto a Montegibbio, nelle prime colline
di Sassuolo, nel modenese, non lontano dal fenomeno geologico tuttora visibile e
attivo delle "salse di Nirano". L’eccezionalità del sito di Montegibbio risiede
infatti non solo nel carattere cultuale dell’insediamento ma nella possibilità
di leggere una serie di fenomeni catastrofici legati al vulcanesimo di fango,
noto con il nome di "salse".
L’origine delle Salse è antichissima: note a Celti ed Etruschi, citate da Plinio
e più tardi da Solino, con i Romani diventeranno luogo di culti di sanatio
connessi a cure e trattamenti terapeutici e alle divinità femminili legate del
mondo sotterraneo e alle forze sismiche o vulcaniche
In area padana, i Romani accreditano alla dea Minerva le prerogative tipiche di
divinità femminili di origine celtica, in particolar modo quelle legate alle
acque salutari e al loro potere terapeutico (da cui l’epiteto Minerva Medica).
La presenza nel sito di paleo-vulcani di fango ha motivato in età antica il
culto religioso legato alle acque e alle manifestazioni ctonie in senso lato,
incentrato sul culto della dea Minerva.
A Montegibbio il nome della dea appare inciso sul vasellame deposto dai fedeli,
in un caso integralmente come dedica, più spesso solo con la M iniziale o la
doppia MM di Minerva Medica o Memor.
Gli oggetti rinvenuti a Montegibbio testimoniano una frequentazione del sito già
nell’età del Rame e in epoca celtica. Il sito si struttura poi come santuario a
partire dal II sec. a.C. fino agli inizi del II sec. d.C. Il vasellame
viene usato per libagioni e banchetti; gli oggetti dedicati alla dea sono
modesti e di uso comune e alcuni di essi richiamano le caratteristiche divine di
Minerva, Medica e protettrice delle attività artigianali.
Delle prime strutture del santuario (II sec. a.C.) si conserva la porzione di un
grande recinto che probabilmente delimitava la “salsa di Minerva”.
Dopo la distruzione di queste strutture di età repubblicana, causata da un
evento catastrofico naturale, alla metà del I sec. a.C. gli spazi del santuario
vengono ridistribuiti: l'edificio è strutturato in più ambienti, con una serie
di stanze con pavimenti a mosaico (opus signinum) che delimitano
un cortile interno, e una scala esterna che conduce alla “salsa di Minerva”,
ancora attiva. Il santuario è anche dotato di una propria fornace per la cottura
di laterizi, vasellame e statuette fittili.
In seguito a una nuova distruzione dell’area sacra, anche questa dovuta a un
cataclisma naturale agli inizi del II sec. d.C., il sito viene abbandonato.
A partire dal III sec. d.C. viene costruita una casa colonica, il cui pozzo
attinge acqua nello stesso punto in cui prima si venerava la “salsa di Minerva”.
La mostra è accompagnata da pannelli esplicativi e da un video che propone
la ricostruzione tridimensionale del santuario e racconta il valore storico
di questo sito e le cause del suo
abbandono.
L'esposizione vuole illustrare i dati più recenti dell’attività di
ricerca archeologica e geologica a Montegibbio e divulgare quanto emerso
dagli studi degli archeologi, geologi e botanici che in questi quasi 10 anni si
sono dedicati alla scoperta e allo studio del Santuario di Minerva, sorto in
prossimità di polle d'acqua salutifere e più volte distrutto da eventi
catastrofici.
Particolarmente interessanti i contributi che ci arrivano dai testi antichi.
Plinio il Vecchio (I sec. d.C.) ricorda infatti un evento catastrofico naturale
avvenuto nel territorio modenese riconducibile all’esplosione di una “salsa”
mentre Solino (III-IV sec. d.C.) ci descrive le salse osservate nel territorio
di Agrigento, nel famoso campo noto come “Maccalube”. I vulcani, le pozze di
fango, le fuoriuscite di petrolio (bitume) e di gas metano, sono considerati
veicoli tra gli dei e i fedeli, punto di contatto tra il mondo umano e quello
sotterraneo. Un legame perfettamente attestato nel santuario romano dedicato a
Minerva Medica rinvenuto a Montegibbio.
Minerva Medica. Un santuario romano a Montegibbio
Figlia di Meti e di Giove, per i romani Minerva rappresentava la
virginea dea della saggezza, della strategia e dell'ingegno,
della lealtà in lotta e delle giuste guerre (per giusta causa o per difesa). Era la protettrice degli
artigiani e delle arti utili (architettura, ingegneria, scienza, matematica,
geometria e tessitura) nonché l'inventrice del carro e del telaio e di molte
altre cose.
Athena in greco, in latino Minerva, la dea è rappresentata avvolta da una lunga
veste, con il petto coperto dall’egida e dal gorgoneion, un elmo sul
capo, una lancia in una mano e uno scudo nell’altra.
In area padana, la dea Minerva rientra nel fenomeno di assimilazione della
religiosità romana a divinità femminili di origine celtica, specificatamente
legate alle acque e alla salute che da esse deriva, da cui l’epiteto Minerva
Medica.
A Montegibbio il nome della dea è documentato graffito sul vasellame dai fedeli:
compare spesso con la sola M iniziale o con la doppia MM di Minerva Medica
o Memor.
In area emiliana sono noti bronzetti che riproducono l’iconografia guerriera
della dea, che nelle epigrafi latine emiliane -in particolare nelle famose
iscrizioni rinvenute nel ricco santuario terapeutico-oracolare di Minerva
Medica/Memor di eredità celtica (sviluppatosi sul medio corso del fiume
Trebbia, nei dintorni dell’attuale Caverzago, 4km a sud del comune di Travo nel
Piacentino)- era invocata dai devoti come dea Sanctissima ed Augusta,
attributi generici e devozionali, e ricordata come Minerva Memor e Medica.
Memor poiché la dea ricorda le preghiere e ammonisce i fedeli,
Medica poiché cura i propri fedeli.
Il culto di Minerva, in area padana, è specificatamente legato alle acque e alla
salute che da esse deriva; è solitamente attestato in prossimità di risorgive
d’acqua o di fenomeni geologici con proprietà curative, quali le “salse”
(piccoli vulcani di fango) o le fonti di petrolio, già venerate dalle
popolazioni autoctone. Minerva dunque ha poteri terapeutici.
Nel modenese l’importanza del culto di Minerva è ricordato da Cassio Dione,
nella sua Historia (XLVI, 33, 3-4). Alla partenza di Vibio Pansa per la
famosa guerra di Modena nel 43 a.C., si verificano alcuni prodigi premonitori
dell’importanza dell’evento storico tra cui la statua di Athena, venerata presso
Mutina, che versa lacrime e sangue.
Nel territorio modenese spicca per importanza una piccola arula votiva
datata al II sec. d.C., rinvenuta nel comune di Maranello, in prossimità della
sponda destra del torrente Fossa, vicino al campo delle “salse” di Nirano. Il
testo, graffito sciattamente su uno zoccoletto in pietra tenera vicentina,
riporta il nome di un personaggio di origine servile, Hermadion, che dona
come ex voto questa arula alla dea Minerva (-sig / n?]um [-] / Minerv[ae] /
Hermadion / ex voto).
Gli scavi nel santuario di Montegibbio non hanno finora rinvenuto epigrafi
lapidee ma hanno recuperato alcuni testi graffiti su vasellame in cui compare il
nome di Minerva; le caratteristiche tipologiche dei frammenti di ceramica
consentono di inquadrare i graffiti tra il III-II sec. a.C. ed il II sec. d.C.
Il nome integrale della dea compare su un frammento di ciotola per l’acqua
inquadrabile tra il III-II sec. a.C. Il fedele incide una dedica alla dea in cui
è la ciotola stessa a parlare, dedicando sé stessa e il proprio contenuto a
Minerva.
[Eg]o Miner(vae) sum, “io sono dedicata a Minerva”.
Negli altri graffiti rinvenuti a Montegibbio il nome della dea appare con altre
modalità espressive. Minerva è riportato per esteso su un coperchio di dolio
frammentario (grosso contenitore per derrate alimentari) con lettere incise
prima della cottura utilizzando un bastoncino
[Min]er , “Minerva”
Sulla vasca di una piccola brocca la doppia presenza della lettera M, incisa in
modo poco accurato dopo la cottura del vaso, richiama le due M presenti nelle
dediche alla dea rinvenute a Travo, nel piacentino. La prima M sottintende il
nome della dea, l’altra uno dei due appellativi più usuali e strettamente legati
alle sue prerogative divine: medica e memor.
M M, “Minerva Medica/Memor”
Altri graffiti, incisi dopo la cottura del vasellame e spesso difficilmente
interpretabili, sono presenti su frammenti ceramici inquadrabili tra il periodo
repubblicano e l’alta età imperiale. Le incertezze interpretative sullo
scioglimento di alcuni segni sono comprensibili se si riflette sia sulla
variabilità del grado di acculturazione dei fedeli che sul valore stesso di
queste incisioni, espressioni estemporanee e occasionali di devozione, spesso
dipendenti da fattori contestuali quali il tempo a disposizione e l’ambiente in
cui si esegue l’incisione.
Su due frammenti di piatti di ceramica a vernice nera le porzioni delle lettere
conservate lasciano solo supporre la presenza di una M.
M, “Minerva ”
Sulla vasca di una coppetta in terra sigillata la prima M è certa, mentre
suscita qualche dubbio la lettera successiva, probabilmente una V da intendere
come abbreviazione di votum o vovit. In quest’ultimo caso il segno presente tra
le due lettere potrebbe essere interpretato come interpunto a separare
l’iniziale del nome Minerva e quella della formula di voto.
M.V
Le ‘salse’ raccontate dalle fonti antiche
Plinio II, 199 Naturalis Historia
“Nel territorio di Modena, tempo fa, come documentato negli antichi testi
della dottrina etrusca, avvenne un enorme sconvolgimento di terre durante il
consolato di Lucio Marcio Sesto Giulio. Infatti due monti cozzarono tra loro
avvicinandosi e allontanandosi con un enorme crepito, in seguito al loro scontro
salivano in cielo fiamme e fumo. Tale spettacolo fu visto da una moltitudine di
cavalieri romani e viandanti che procedevano lungo la via Emilia. Durante tale
evento catastrofico furono distrutte le case di quelle terre e morirono molti
animali che si trovavano lì vicino. Avvenne nell’anno che ha preceduto la Guerra
Sociale, che da quanto so io, fu più funesta della Guerra Civile per la terra
italiana” (91 a.C.).
Questo evento portentoso, raccontato nel testo enciclopedico redatto da Plinio
il Vecchio nel corso del I sec. d.C., viene verosimilmente interpretato come la
descrizione di un fenomeno sismico (o sequenza sismica) associato a un’eruzione
di fango avvenuta presso Montegibbio.
La documentazione storica attesta un’”esplosiva” attività della salsa di
Montegibbio, cadenzata nel tempo, fino al 1835 quando, da ultimo, gli effetti
portentosi vengono raccontati dallo studioso Giovanni De’Brignoli di Brunnhoff.
Solino V, 22-25 Collectanea rerum memorabilium
Sopra la superficie di un lago di Agrigento, galleggia una sostanza oleosa:
questa morchia aderisce alle foglie delle canne con una patina persistente,
dalle cui cime si raccoglie un unguento medicamentoso contro i morbi del
bestiame. Non lungi dal lago, il colle di Vulcano, sul quale coloro che compiono
sacrifici ammucchiano sarmenti sopra gli altari e non portano il fuoco a questa
ramaglia: non appena vi pongono le viscere delle vittime, se compare il dio e
accetta l’offerta, la sterpaglia, anche se verde, inizia ad ardere per suo conto
e senza bisogno di attizzare il fuoco soffiandovi: è il nume che causa
l’incendio. Il fuoco scherza con i partecipanti al sacro banchetto, poi si
innalza in forma di lingue sinuose, senza bruciare coloro che sfiora, e non ha
altro significato se non quello di segnale annunciante che i voti si sono
compiuti in modo conforme alle prescrizioni.
Lo stesso territorio di Agrigento erutta fontanazzi di fango e proprio come le
scaturigini delle fonti bastano ad alimentare i fiumi, così in questa parte di
Sicilia la terra vomita terra, in un perpetuo rigurgito, senza che si verifichi
mai scarsità di suolo.
La descrizione fornita dal geografo Solino, vissuto nel III-IV sec. d.C., si
riferisce alle salse osservate nel territorio di Agrigento, nel famoso campo
noto come “Maccalube”: ai vulcani e alle pozze di fango sono associati
fuoriuscite di petrolio (bitume) e di gas metano.
Solino sottolinea in modo assai efficace come per gli antichi il fenomeno
geologico delle salse non fosse solo connesso alla sanatio (cioè alla
cura) ma anche a una pratica oracolare, per cui l’uscita improvvisa di acqua,
fango e fuoco rappresentava un veicolo di contatto tra il mondo umano e quello
sotterraneo.
Antica incisione della zona di Nirano che riproduce abbastanza fedelmente il
paesaggio seppur con qualche invenzione
La geologia del sito
L’eccezionalità del sito di Montegibbio risiede non solo nel carattere
cultuale dell’insediamento ma soprattutto nella possibilità che offre di poter
leggere una serie di fenomeni catastrofici legati al vulcanesimo di fango, noto
con il nome di salse. La presenza, nel sito, di paleo-vulcani di fango ha
motivato in età antica il culto religioso legato alle acque e alle
manifestazioni ctonie in senso lato, incentrato sul culto della dea Minerva.
Il sito archeologico è molto vicino alla salsa storica di Montegibbio, il
maggiore vulcano di fango d’Italia, quiescente da quasi due secoli.
A fronte di una geomorfologia locale estremamente semplice, la complessità delle
evidenze geologiche osservate nello scavo archeologico deriva dalla tettonica
regionale, alla cui attività è legata la venuta a giorno di acque, fanghi e gas
di salsa. La stratigrafia geologica del sito archeologico è molto semplice. Alla
fine dell’ultimo periodo glaciale, tra 15000 e 14000 anni fa, sopra alle argille
grigio azzurre affioranti in loco, si genera un suolo di colore
marrone-rossastro già oggetto di frequentazione durante l’età del Rame. Al di
sopra di questo si deposita una prima colata di fanghi biancastri, provenienti
da alcune decine di metri di profondità (serbatoio della “salsa”). Una seconda
colata di fango, databile nell’ambito del II sec. d.C., si intercala alla
sequenza archeologica. Questi tre orizzonti-guida hanno permesso la
ricostruzione della travagliatissima storia delle strutture edilizie di età
romana. Le strutture dell’insediamento romano, nel suo complesso, compreso cioè
tra l’età repubblicana ed il periodo tardoantico, hanno subito evidenti
deformazioni, ricollegabili all’accumulo di fluidi (gas e fanghi) a profondità
varie, legato alla presenza di faglie e fratture nel substrato geologico. È
possibile, ma non ancora provato, che tali deformazioni siano state associate
anche ad attività sismica locale. Le deformazioni riconosciute sono di quattro
tipi (A, B, C, D) e si sono variamente sviluppate in quattro momenti distinti,
con conseguente crisi ed abbandono del sito (distruzione) ed altrettante
successive nuove fasi costruttive.
A) Le deformazioni “ad onde” delle pavimentazioni della struttura santuariale di
prima età imperiale, sono riconducibili a rigonfiamenti di piccolo raggio della
superficie topografica antica che hanno originato concavità e convessità.
B) Le deformazioni orizzontali visibili nei mattoni di una struttura muraria di
prima età imperiale sono riconducibili a lacerazioni da trazione (distensive).
C) Subsidenze (inflessioni verso il basso) di entità pluridecimetrica,
topograficamente concentrate in direzione NNE-SSW al centro del saggio 2,
visibili principalmente nella struttura bugnata di età repubblicana. Queste
hanno continuato in vario modo ad aumentare di dimensioni attraverso il tempo
portando i resti antichi localmente fino a vari metri di profondità.
D) Deformazioni di taglio visibili nelle strutture e negli strati archeologici
dovute all’esistenza di piani di faglia sepolti, responsabili della comparsa di
un forte dislivello nel versante antico, che ha causato un abbassamento di circa
4 m (ed oltre) delle strutture archeologiche rinvenute nel saggio 2
Santuario e Casa colonica
Il santuario si sviluppa in una zona di crinale pressoché pianeggiante, alla
quota di 350 m s.l.m., in località Poggio di Montegibbio, lungo via della
Rovina.
Del santuario di età repubblicana (II sec. a.C.) si conoscono poche strutture,
in parte distrutte dagli sconvolgimenti naturali. Quella più importante è
costituita da murature in grandi blocchi lapidei squadrati e bugnati che
formavano un grande recinto rettangolare, di circa 5x7 m, che probabilmente
delimitava la “salsa di Minerva”.
Dopo la distruzione delle strutture di età repubblicana, causata da un evento
catastrofico naturale, gli spazi del santuario vengono ridistribuiti intorno
alla metà del I sec. a.C. Lo spazio sacro è ora organizzato in una serie
di stanze con pavimentazioni in opus signinum (mosaico con base in
cocciopesto) che incorniciano un cortile interno. La “salsa di Minerva”,
precedentemente delimitata da un recinto, viene ora raggiunta tramite una scala,
posta sul lato a valle del santuario.
Scala in laterizi realizzata per raggiungere la polla sacra del santuario di
Montegibbio (foto di Francesca
Guandalini)
Purtroppo i dissesti geologi verificatisi a Montegibbio non consentono di
ricostruire nella sua interezza la pianta del santuario. Si conserva però
una stanza di 6x5 m con soglia d’ingresso in pietra arenaria e pavimentazione in
opus signinum decorata da una cornice esterna costituita da un meandro di
svastiche alternato a due quadrati concentrici che delimitano la parte centrale
formata da file ortogonali di rosette.
Le pareti del santuario erano rivestite da affreschi policromi di pregio. Questi
affreschi (rinvenuti in crollo) sono in gran parte riferibili allo zoccolo delle
murature, dipinte da fasce e linee. La parte centrale della parete era invece
costituita da pannelli monocromi riquadrati da linee sottili o cornici molto
semplici. Le analisi archeometriche, condotte sulle tecniche delle pitture e sui
pigmenti utilizzati, hanno rilevato la presenza a Montegibbio di maestranze
dotate di una notevole abilità che, per creare i colori, si avvalevano di
minerali di pregio e tecniche sofisticate.
Al santuario era affiancata una fornace, utilizzata sia per la cottura di
laterizi da costruzione, che per la produzione di vasellame e statuette fittili,
utilizzati dai fedeli come offerte votive.
Agli inizi del II sec. d.C. una seconda catastrofe naturale distrugge le
strutture sacre di Montegibbio.
Dopo un periodo di abbandono del sito, vengono costruite murature attribuibili a
una casa colonica, dotata di un pozzo costruito nello stesso punto in cui era
precedentemente venerata la “salsa di Minerva”.
Oggetti di culto
Gli oggetti rinvenuti a Montegibbio testimoniano una frequentazione del sito
già nell’età del Rame e in epoca celtica.
Il sito si struttura come santuario a partire dal II sec. a.C. fino agli inizi
del II sec. d.C.
Il vasellame rinvenuto veniva usato per libagioni e banchetti; gli oggetti
dedicati alla dea erano modesti e di uso comune, alcuni di essi richiamano le
caratteristiche divine di Minerva che è Medica e protettrice delle attività
artigianali.
Sono datati all’età del Rame (IV-III millennio a.C.) una punta di freccia
foliata in selce e un’ascia in pietra verde senza tracce di usura. Tali reperti
evidenziano una frequentazione molto antica, di cui non è però possibile
specificare la natura.
In epoca celtica (nel III sec. a.C.), a Montegibbio sono documentate
colate di terra biancastra attribuite alle salse. Sono databili a questo periodo
alcune ciotole/coperchio in ceramica grezza non tornita che testimoniano la
frequentazione dell’area, già in questo periodo.
In età romana (II sec. a.C. - inizio del II sec. d.C.) quando in
prossimità della “salsa di Minerva” si struttura un luogo di culto, si
documentano alcuni oggetti interpretabili sia come offerta votiva alla dea sia
come oggetti impiegati nell’ambito delle pratiche rituali del santuario.
Nel periodo repubblicano (II-I sec. a.C.) sono attestati piattelli, coppe
e piatti in ceramica a vernice nera mentre nel periodo alto imperiale (I
sec. a.C.-inizi II sec. d.C.) prevalgono bicchieri, coppe, ollette, orcioli sia
in ceramica a pareti sottili che in ceramica grezza. Si tratta verosimilmente di
contenitore utilizzati per libagioni o banchetti rituali mentre il vasellame di
grandi dimensioni (brocche e bacili in ceramica comune) è riconducibile ad
abluzioni rituali.
Le lucerne sono usate sia come doni rituali alla divinità che come semplici
lampade per illuminare gli ambienti. Sono anche presenti stili in osso e bronzo,
alcuni strumenti da toilette (pinzetta), elementi di decoro femminile (spilloni
in osso), aghi in osso e in bronzo, numerosissimi pesi da telaio ed elementi di
una piccola bilancia in bronzo. Questi reperti richiamano le caratteristiche
divine di Minerva, che è Medica e protegge le arti, tra cui la tessitura e la
cucitura di pelli e tessuti. Tali arti erano soprattutto praticate dalle donne,
la cui presenza nel santuario è richiamata dagli spilloni per i capelli e da
alcuni oggetti di ornamento personale quali anelli semplici o con gemme
incastonate, vaghi di collana in pasta vitrea, pendenti e fibule, dedicati
anch’essi alla dea. Alcuni di questi strumenti, in particolare gli aghi e gli
spilloni, sono anche strumenti scrittori alternativi agli stili, utilizzabili
per incidere, con un semplice graffito sul vasellame, le dediche alla dea.
Numerose anche le monete rinvenute. Si tratta di reperti che possono essere
connessi sia alla frequentazione del sito sia ad una volontaria offerta alla
divinità. Tra le monete si segnalano due assi repubblicani recanti il tipo di
Giano bifronte e la prora di nave da guerra (II secolo a.C.) nonché, per l’epoca
giulio-claudia, una moneta di Tiberio e due di Claudio, tra cui un sesterzio
successivamente contromarcato all’epoca di Nerone.
Sesterzio di Alessandro Severo (221-235 d.C.). Zecca di Roma, emissione del 231
d.C. (foto R. Bernadet)
Il Santuario di Minerva e l’insediamento rustico di età romana a
Montegibbio di Sassuolo (Modena)
Le indagini archeologiche hanno rilevato una prima frequentazione del
sito già in epoca pre-protostorica (Neolitico-Età del Rame) e soprattutto
chiarito come l'insediamento di età romana di Montegibbio, inizialmente interpretato come
una villa, fosse in realtà un luogo sacro.
Le strutture di età repubblicana e di prima età imperiale rinvenute si sono
rivelate pertinenti a un santuario connesso alla venerazione di Minerva, dea
legata agli aspetti salutari delle acque e dei vulcani di fango (salse) noti
nella zona. Questo culto, testimoniato tra l'altro anche da una coppa su cui è incisa
la dedica alla dea, persiste dal III-II sec. a.C. fino agli inizi del II sec.
d.C.
A partire dal III sec. d.C., invece, il sito cambia la propria destinazione
d’uso diventando un insediamento rustico con impianti produttivi.
Nel sito di Montegibbio, le ricerche si sono concentrate prevalentemente su due
pianori posti lungo il versante occidentale del bacino del Rio del Petrolio,
alla quota di 350 m s.l.m. Nei due pianori sono state individuate sette fasi
insediative, intervallate da almeno tre catastrofi naturali che, in diversi
periodi storici, hanno causato l’abbandono dell’insediamento.
Nel primo pianoro, le strutture archeologiche più eclatanti (anche per le
deformazioni rilevate) sono costituite da quattro vani con pavimentazioni in
opus signinum, costruiti alla fine del I sec. a.C. e abbandonati agli inizi
del II sec. d.C. in seguito a un catastrofico evento naturale di cui si ignora
l'esatta natura.
Nel secondo pianoro, localizzato lungo il pendio a una quota inferiore rispetto
al primo, sono state messe in luce strutture murarie in blocchi lapidei bugnati
in arenaria che delimitano un grande vano (inquadrabile al II-I sec. a.C.)
probabilmente contenente la polla fangosa di una salsa. A partire dalla fine del
I sec. a.C. la discesa alla polla viene agevolata da una scala in laterizi che
affianca un vano con una bella pavimentazione in opus signinum.
In epoca tardo-antica (nel IV secolo d.C.), con la perdita della
valenza sacrale del sito, in corrispondenza della polla viene costruito un pozzo
con camicia in ciottoli. Questa struttura, defunzionalizzata da un nuovo evento
catastrofico nel corso del VI sec. d.C., rappresenta l’ultima testimonianza di
vita dell’insediamento.
Ciò che rende speciale il sito di Montegibbio, oltre alle specifiche valenze
storico-archeologiche, sono le deformazioni osservate negli strati e nelle
strutture rinvenute, probabilmente riconducibili a scosse sismiche locali
connesse a fuoriuscite fangose di piccoli vulcani di fango. Per comprendere un
contesto così particolare -che fa del sito di Montegibbio un unicum nel suo
genere- è stata necessaria la presenza contemporanea sullo scavo di archeologi,
geologi e paleo-botanici, impegnati in un confronto multidisciplinare.
a sin, un archeologo mentre libera una parete affrescata del santuario di
Montegibbio - a des, geologi impegnati in prove sismiche nel campo degli scavi
di Montegibbio (foto di
Francesca Guandalini)
promossa da
Comune di Sassuolo, Soprintendenza Archeologia dell’Emilia-Romagna e
Fondazione Cassa di Risparmio di Modena
in collaborazione con
Dipartimento di Ingegneria Civile, Chimica, Ambientale e dei
Materiali, Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali
dell'Università degli Studi di Bologna e Laboratorio di Palinologia e
Paleobotanica dell'Università di Modena e Reggio Emilia
mostra a cura di
Francesca Guandalini e Donato Labate
testi pannelli
Francesco Benassi, Lisa Borgatti, Stefano Cremonini, Francesca
Guandalini, Donato Labate, Maria Chiara Montecchi, Carlo Poggi, Daniela Rigato e Simona Scaruffi
organizzazione
Elisabetta Leonardi e Elena Tagliavini, Servizi Culturali e
Ricreativi Città di Sassuolo
fotografie
Francesca Guandalini, Roberto Macrì, Giorgio Merighi e Ernesto
Tuliozi
progetto grafico
avenida.it
rilievo con scan laser 3D
Geogrà e Paolo Terzi
esecuzione ed elaborazione rilievo 3D
Paolo Leoni, Comune di Sassuolo
regia video
Andrea Comastri con la collaborazione di
Filiberto Basile, Francesca Guandalini, Paolo Leoni e Marco Pifferi voce
restauro reperti
Roberto Monaco, Renaud Bernadet, Gaetano Carro, Marica Minghetti e
Ivan Zaccarelli
Scavo Archeologico 2006-2010
direzione Scientifica
Luigi Malnati e Donato Labate
coordinamento
Francesca Guandalini e Ivan Zaccarelli
Scavo Archeologico 2010-2014
direzione Scientifica
Francesca Guandalini
coordinamento
Francesco Benassi, Simona Scaruffi e Giorgia Sfargeri
organizzazione cantiere
ArcheoModena
ringraziamenti
Liliana Mazzoni, Angela Ottani, Angelo Ottani, Stefania Ottani e
Marco Silvestri (Gruppo Archeologico Montegibbio); Giovanna Cervetti, Fabrizio
Burgato, Ermanno Dogati, Alfredo Toni e Gianni Toni (Circolo Boschetti Alberti
Montegibbio); Francesca Piccinini e Silvia Pellegrini (Musei Civici di Modena);
Fausto Ferri (Comune di Modena) e i partecipanti allo scavo
archeologico: Chiara Baraldi, Paolo Bonometti, Alessandra Bosi, Camilla Botti,
Giordano Cantergiani, Chiara Bussotti, Giorgia Ferrrari, Maurizio Malaguti,
Antenore Manicardi, Giovanni Orlandi, Camilla Osetta, Tania Previdi, Patrizia
Romani, Selena Sala, Agnese Selmi e Matteo Veratti
Clicca qui per la IV campagna di scavo del 2009 che ha individuato il santuario di Minerva