Il
Comune di Montefiore Conca
e
la Soprintendenza Archeologia dell'Emilia-Romagna
Rocca
Malatestiana di
Montefiore Conca (RN)
da sabato 11 giugno 2011
per
info su orari di apertura e modalità d'ingresso
0541.980035 (Comune) 0541.980179 (Rocca)
Il progetto di valorizzazione del castello di Montefiore Conca,
nell’entroterra riminese, rappresenta una delle pochissime esperienze di
archeologia medievale e post-medievale della bassa Valconca. Le indagini
archeologiche effettuate dal 2006 al 2008 hanno portato in luce importanti dati
sulle antiche strutture del Rocca Malatestiana, restituendo anche una notevole
mole di materiale ceramico, protagonista della mostra
“I colori di Montefiore.
Testimonianze archeologiche dagli scavi nella Rocca” (inaugurata il 22 maggio
2009).
Da
sabato 11 giugno 2011 (ore 17.30), a poco più di due anni dal primo
allestimento, l'esposizione si è ampliata e ha cambiato volto grazie agli sforzi
congiunti del Comune di Montefiore Conca e della Soprintendenza Archeologia dell'Emilia-Romagna, con il finanziamento della Banca Popolare
della Valconca e di Ceramica del Conca Spa, e la collaborazione della Soprintendenza per i Beni Architettonici e
per il Paesaggio per le province di Ravenna, Ferrara, Forlì-Cesena e Rimini e
della Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici
dell'Emilia-Romagna.
La mostra "Sotto le tavole dei Malatesta. Testimonianze archeologiche dalla
Rocca di Montefiore Conca", allestita nella Rocca Malatestiana, espone una parte dei materiali
ritrovati nelle discariche durante gli scavi nella Rocca. Curata da Simone Biondi (Tecne srl), Annalisa Pozzi (SBAER) e Chiara Cesaretti, l'esposizione consente di
ricostruire veri e propri frammenti della vita quotidiana nella rocca nei suoi
tre secoli di occupazione da parte dei Malatesta prima e dei Montefeltro
poi, dagli inizi del ‘300 alla metà del ‘500.
L’allestimento, progettato dall’Arch. Franco Roberti, si
sviluppa su due livelli.
Al primo piano sono esposti i reperti in vetro, metallo, le monete e gli
stucchi architettonici, che ornavano i saloni e le stanze della Rocca. Al
secondo piano sono raccolte le ceramiche d’uso e da mensa, ritrovate durante gli
scavi.
Pur
inserendosi nell'ormai consolidato filone degli studi sulla produzione ceramica
di età malatestiana, l'esposizione di Montefiore offre il valore aggiunto di una
location straordinaria, quella Rocca a cavallo tra Medioevo e Rinascimento di
cui possiamo ammirare i locali recentemente restaurati e, al pianterreno, l'area
di scavo archeologico vera e propria, lasciata a vista per il pubblico.
LA ROCCA
La prima notizia del castrum Montis Floris risale al 1170, quando papa
Alessandro III lo concesse in enfiteusi alla Chiesa di Rimini. Difficile capire
come fossero organizzate le strutture che costituivano l’originario corpo di
fabbrica in quel periodo. E’ noto che con il termine castrum/castellum le fonti
indicano una quantità innumerevole di tipologie costruttive ed amministrative.
Gli scavi archeologici hanno dimostrato l’esistenza di strutture databili al
XIII secolo al di sotto del muro di vela del mastio, oggi non più conservato.
Dal “Registro di lettere dei Malatesti” sappiamo che la Rocca attuale fu
costruita da Guastafamiglia Malatesta (1299- 1364) e ampliata dai figli Pandolfo
II (1325-1378) e Ongaro (1327-1372). A questi si lega la committenza del ciclo
di affreschi che decorano la sala dell’Imperatore, opera del pittore Jacopo
Avanzi da Bologna. Nel corso del XV secolo si registra poi una ristrutturazione
da parte di Sigismondo Pandolfo (1417-1468) nipote di Pandolfo II (1325- 1373).
Le successive vicende del castello sono molto complesse: nei secoli XV-XVI fu
oggetto di passaggi di potere quasi continui fra i Malatesta, i Montefeltro e la
Santa Sede, che lo detenne pressoché ininterrottamente sino all’Unità di Italia.
Foto aerea della Rocca malatestiana e del borgo di Montefiore Conca (RN)
GLI SCAVI ARCHEOLOGICI
Gli scavi archeologici hanno portato in luce una serie di ambienti di
servizio (cucine, magazzini, stalle) in uso fra i secoli XIV-XVI. L’aspetto più
interessante di questa fase è dato dalla costruzione di una grande cisterna
“alla veneziana”, collegata ad un impianto di recupero dell’acqua piovana.
Questo era formato da grondaie di scolo che dal tetto, attraverso i muri
perimetrali, scendevano fino alle cucine, dove l’acqua veniva filtrata e
raccolta nel pozzo centrale. Quest’ultimo era dotato in origine di una vera
esterna in mattoni e di un chiusino che veniva aperto ogni qual volta era
necessario attingere acqua. All’abbandono della cisterna trecentesca fece
seguito la costruzione, durante l’occupazione veneziana (1504-5), della seconda
e più grande cisterna, ancora in uso all’interno della corte della Rocca.
Alla metà del ‘300 si datano anche le fosse da butto scoperte nelle cucine,
vicino alla cisterna e nei magazzini. Si tratta di strutture interrate, in
muratura con copertura a volta, formate ognuna da una camera completamente
chiusa, priva di accesso e dotata solo di piccole caditoie o condotti a botola
per lo scarico dei rifiuti. L’importanza del ritrovamento è data dai
riempimenti. In queste camere era infatti gettato tutto quanto era giudicato
“rifiuto”, dai resti di pasto, alle ceramiche, agli attrezzi da lavoro rotti o
non più utilizzati (pesi da bilancia, falcetti, roncole, forbici ecc.), fino ai
vetri di bottiglia o di bicchieri.
Veduta della stanza A con la cisterna di raccolta per l’acqua (XIV secolo)
L’ALLESTIMENTO E I MATERIALI
L’ingresso alla Rocca avviene attraverso gli spazi delle cucine, oggi
musealizzati, dove è visibile al centro della stanza la cisterna del ‘300. Da
qui si passa agli adiacenti magazzini, o “stanza dei butti”, dove si trovano le
discariche per i rifiuti. In corrispondenza dell’originario pavimento in terra
battuta, oggi non conservato, si può osservare il muro divisorio in pietra che
separava le stanzette quadrate con le botole per lo smaltimento dei rifiuti
nelle discariche sottostanti. Sul lato opposto della stanza restano, invece,
alcuni brevi tratti in muratura databili al tardo ‘500 e riferibili
probabilmente all’alloggiamento di una ruota meccanica. Una rampa moderna,
addossata al muro perimetrale della stanza, permette poi di raggiungere i piani
nobili e la sala affrescata dell’Imperatore.
La visita prosegue attraverso le sale che espongono una parte dei materiali
ritrovati nelle discariche durante gli scavi nella Rocca. L’allestimento si
sviluppa su due livelli.
Al primo piano sono esposti i reperti in vetro, in metallo, le monete e gli
stucchi architettonici, che ornavano i saloni e le stanze della Rocca.
I VETRI (di Chiara Cesaretti)
Gli scavi archeologici all'interno della Rocca hanno portato al recupero di
diverse centinaia di frammenti vitrei.
Tra gli oggetti vitrei più diffusi vi sono i contenitori per acqua e vino, come
bicchieri troncoconici e calici, alcuni provenienti dalle vetrerie di Murano,
come quello con lo stelo decorato dalla maschera leonina dorata. Numerose sono
le bottiglie da portare sulla tavola o da tenere in dispensa, anch'esse in parte
importate da Venezia: ben si distingue la qualità del vetro utilizzato nelle
vetrerie venete, rispetto a quella delle vetrerie locali, decisamente più
scadente. Inoltre vi sono coppe in lattimo (vetro ricco di stagno), orinali
utilizzati dai medici per analizzare lo stato di salute del paziente, oggetti
tipici della toletta femminile come bottigliette e fiale per profumi e olii da
corpo, unguentari per contenere medicinali. Poche sono le lampade per illuminare
gli oscuri ambienti del castello e assenti le lastre da finestra. La gamma dei
colori con cui sono realizzati tali oggetti è vasta: si va dai più comuni
giallo, incolore, verde e azzurro, al rarissimo viola scuro, fino al costoso blu
cobalto.
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METALLI - SIGILLO
Numerosi
sono anche i metalli, tra cui alcune monete coniate nelle zecche di Bologna,
Lucca e Torino, Firenze, che documentano i commerci fra Montefiore e questi
centri. Le attività lavorative sono testimoniante dagli strumenti d’uso, come le
roncole, le piccozze e i pesi da bilancia, mentre alla cerchia domestica
rimandano gli oggetti per il cucito, come gli spilli in bronzo e i ditali. La
sfera privata più intima si rivela invece nella cosmesi e nella cura del corpo,
con i pettini in osso, i monili in bronzo e le fibbie per cinture e calzature.
Gli scavi archeologici hanno recuperato anche una matrice sigillare doppia, per
sigillo e controsigillo, in bronzo, presumibilmente del XIV secolo. Il reperto è stato studiato (solo su foto
purtroppo) dalla dott.ssa Stefania Ricci dell'Istituto Centrale per gli Archivi
di Roma che ha tratto queste conclusioni.
Il sigillo, di forma rotonda, diametro mm 22, consta di una legenda in lettere
maiuscole racchiusa tra due filetti perlinati: + S(igillum) PIERUÇOLE D(e) MATHEI.
Nel campo liscio è incisa con ogni probabilità una balestra, resa in forma
schematica e priva del crocco nella parte superiore.
Il controsigillo, anch'esso di forma rotonda e di diametro inferiore (mm 11)
rispetto al sigillo, è privo di scritte (anepigrafo) e reca anch'esso una
balestra su campo liscio.
Per quanto concerne il nome del titolare, la forma "Pieruzzo" trova riscontro
nella documentazione del XIV secolo conservata all'Archivio di Stato di Rimini,
mentre l'iconografia della balestra trova riscontro in quattro matrici
conservate al Museo del Bargello di Firenze. Risulta difficile
un'identificazione più precisa del titolare della matrice che prescinda da
confronti con le fonti e la storia locale. Si può solo affermare che le matrici
doppie sono alquanto rare e appannaggio di norma di chi emana documenti di
differente tipologia diplomatico-giuridica o comunque di chi interviene a vario
titolo nei processi documentari: tutto ciò fa supporre che Pieruzzo sia stato
forse un funzionario titolare di qualche carica.
Vista in questo contesto, l'iconografia della balestra potrebbe far pensare a
una funzione militare del titolare del sigillo, tanto più che una delle matrici
del Bargello citate prima apparteneva agli Ufficiali dei balestrieri della
comunità di Firenze, vera e propria milizia cittadina istituita alla metà del
Trecento e abolita nel 1425. D'altronde è anche vero che si sono riscontrate
matrici doppie, di uso non chiaro, anche per alcuni artigiani fiorentini: in
questo caso, l'iconografia del sigillo potrebbe indicare in Pieruzzo un
fabbricante di balestre.
Il restauro del sigillo è stato eseguito dai restauratori della Soprintendenza
per i Beni Architettonici e per il Paesaggio per le province di Ravenna,
Ferrara, Forlì-Cesena e Rimini.
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CERAMICHE
Al
secondo piano sono raccolte le ceramiche d’uso e da mensa, ritrovate durante gli
scavi. Il percorso si apre cronologicamente con la ricostruzione di una tavola
del 1300 con le maioliche arcaiche, i boccali in zaffera e le ceramiche graffite
padane prodotte nei centri locali di Ravenna, Forlì, Cesena, Rimini e Pesaro.
Alcune ceramiche riportano gli stemmi delle famiglie che hanno abitato nel tempo
all’interno del castello. Fra questi un boccale in maiolica arcaica con lo
stemma dei Malatesta, caricato dallo scudo con tre bande a scacchi, quale
allusione al “gioco della guerra”. Non mancano inoltre le ceramiche
d’importazione, come l’olla da farmacia di pregiata fattura prodotta a Firenze
agli inizi del ‘400.
Tra i vasellami esposti anche le olle e le pentole o i tegami in ceramica da
fuoco o invetriati, usati in cucina per la preparazione dei cibi o la loro
conservazione. Fra questi una leccarda, quasi perfettamente conservata,
utilizzata in cucina come tegame di raccolta dei grassi colatura dello spiedo.
Realizzata in ceramica grezza refrattaria presenta l’intero corpo ceramico
uniformemente annerito. Aspetto questo, derivato più che dall’uso in cucina, da
una possibile impermeabilizzazione della superficie attraverso il sistema
dell’affumicatura. Sistema ancora oggi utilizzato con alcune varianti in diversi
contesti contadini, per la preparazione di teglie e catini da fuoco. Questo
procedimento, come ancora ad esempio la bollitura di grassi o del latte
all’interno dei recipienti, permetteva nel tempo di creare una pellicola di
rivestimento impermeabile adatta alla cottura dei cibi.
Proseguendo la visita si possono osservare le ciotole, i piatti e le scodelle
che decoravano la tavola del ‘400. E’ in questi anni, dalla metà del XV secolo
che inizia ad affermarsi il servizio da tavola, inteso come corredo decorato in
modo omogeneo, a formare l’occorrente per ogni singolo commensale.
Tipico di questo periodo è il grande boccale con le due mani che si stringono,
accompagnate dalla scritta fides, che rientra nella simbologia di corte
del tempo, quale augurio
d’amore
e fedeltà. Altrettanto comune è le decorazione che si ritrova sui piatti e le
scodelle, che riproduce il trigramma di S. Bernardino da Siena “IHS” (indica il
nome ΙΗΣΟΥΣ cioè "Iesous", Gesù, in lingua greca antica e caratteri maiuscoli),
al cui nome esso resta associato anche oggi. Questo simbolo da icona cristiana
perse nel tempo il suo significato effettivo e venne utilizzato alla stregua
degli stemmi araldici nobiliari, come semplice decoro per i servizi da tavola
del ‘400.
San Bernardino da Siena predicò a Rimini nel 1431 e la città gli dedicò una Chiesa nel 1485. Il manufatto è decorato
nei colori blu, arancio e verde ramina, con il monogramma IHS di San
Bernardino al centro e motivi ad ali ricorrenti a colori alterni entro
filetti in bicromia, sulla fascia.
Nel corso delle sue peregrinazioni nella Romagna, dove ebbe gran seguito, San
Bernardino da Siena fu a Rimini nel 1431. La devozione al nome di Gesù che
propugnava fu espressa graficamente per la prima volta in una tavoletta
devozionale che il Santo aveva mostrato a Bologna nel corso di una predica. Il
Signum Christi è molto importante nell'iconografia tradizionale e
popolare e, nonostante qualche modifica legata alle diverse mode stilistiche, è
rimasto sostanzialmente lo stesso fino ai giorni nostri: ihs (Iesus,
antico trigramma, rielaborato dalla Controriforma in anagramma, Gesù nostro
Salvatore) circondato da raggi solari (alludenti a Dio, sole del mondo).
La tavoletta divenne così popolare da essere appesa in quasi tutte le case e la
produzione ceramica, espressione immediata dell'arte popolare, si appropriò di
tale segno ornando piatti, ciotole e boccali con il signum bernardiniano.
Segue
la vetrina con il bacile e la coppetta in graffita rinascimentale, con il
ritratto di profilo femminile, a fronte rasata, secondo la moda del tempo.
Il motivo ricorre spesso nella ceramica di fine '400 e vuole rappresentare un
gentile omaggio alla fanciulla amata. Il profilo è penetrante mentre la sciolta acconciatura riporta fedelmente la moda del
tempo
tendente ad alzare la fronte con un'accurata depilazione.
Per citare qualche esempio famoso, si pensi alle dame dipinte alla metà del
secolo da Piero della Francesca o ai ritratti di Isotta degli Atti (prima
amante, poi sposa dal 1456 di Sigismondo Malatesta) raffigurati sulle monete.
Prodotte dalla fine del ‘400 sono invece le maioliche “alla porcellana”, decorate con motivi vegetali blu su smalto bianco, a imitazione delle ceramiche persiane e orientali.
Ai primi del ‘500 datano due piatti da esposizione in maiolica istoriata. Questi dovevano far parte di un più ampio ciclo di ceramiche da parata, oggi purtroppo andato perso, decorate con scene a tema allegorico ed erotico, come il satiro a pesca o la donna nuda legata a un albero, che rimanda forse al mito di Andromeda. È peraltro in corso lo studio dei caratteri iconografici di queste due maioliche che non presentano confronti puntuali, salvo forse quello della donna nuda presente nel quadro "Perseo libera Andromeda" di Piero di Cosimo (1513-15) conservato agli Uffizi.
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Confronto iconografico tra il piatto da parata del XVI secolo (sinistra), con decorazione di donna nuda legata ad un albero e il quadro "Perseo libera Andromeda" di Piero di Cosimo (1513-15) conservato agli Uffizi
Vogliamo sottolineare come tutti i pezzi esposti siano l'esito di due
cantieri scuola di restauro che si sono tenuti nel
2009 a Montefiore Conca (RN) e
nel 2010 a Faenza (RA), con la
collaborazione dei restauratori della Soprintendenza Archeologia dell'Emilia-Romagna (Enrico Bertazzoli, Anna Musile Tanzi, Mauro Ricci,
Monica Zanardi, Virna Scarnecchia, Micol Siboni, Antonella Pomicetti) e
del lavoro degli allievi del corso di restauro del Liceo Artistico per il Design
“Gaetano Ballardini” di Faenza
Le analisi archeozoologiche sono state condotte da Valentina Catagnano e quelle
archeobotaniche da Marco Marchesini (entrambi funzionari SBAER)
GLI SCAVI ARCHEOLOGICI
Basandosi
su quanto riportano le fonti scritte, gli storici hanno collocato la costruzione
del castello fra agli anni 1337 e 1347. Gli scavi archeologici hanno in linea di
massima confermato questi dati, attestando tuttavia un precedente periodo di
frequentazione, databile al tardo XIII secolo.
La Rocca che vediamo oggi è però il
risultato di trasformazioni avvenute nel suo II e III periodo di vita,
costituiti da diverse fasi architettoniche, la più antica delle quali risale
alla metà del XIV secolo, mentre la più recente al pieno XV secolo.
Il corpo più
antico è quello di sud-ovest, formato dalle stanze C e D con gli annessi e il
vano scale, mentre le altre sale del piano di corte furono costruite solo
successivamente. Questi ambienti al pianterreno erano destinati a diversi
utilizzi, principalmente di servizio, mentre gli spazi di abitazione veri e
propri, compresi quelli di rappresentanza, erano ai piani superiori. La fase
malatestiana più antica è presente in una serie di strutture e ambienti di
servizio, la cui costruzione ha comportato l’incisione della roccia di base, con
scassi e buche di palo da ponteggio, il cui uso è molto probabilmente da
collegare alla costruzione della rocca stessa. La struttura più importante
venuta alla luce nella stanza A è la grande cisterna-pozzo per la raccolta
dell’acqua, collocata al centro della stanza.
Si tratta di una struttura
quadrangolare, scavata in parte nella roccia di base. Le pareti sono rivestite
da uno spesso strato di argilla pura con funzione impermeabilizzante; al centro
è costruito un pozzo con camicia in mattoni, tenuti volutamente slegati. Tutto
lo spazio fra le pareti e il pozzo è riempito da sabbia, con funzione ed effetto
filtrante. L’acqua raggiungeva la cisterna attraverso un sistema di canne vuote,
interne alle murature, che partivano dal tetto e portavano direttamente l’acqua
piovana alla vasca di raccolta, dove veniva filtrata dalla sabbia e quindi
raccolta nel pozzo, dove poteva poi essere attinta senza problemi.
L’aspetto più
interessante di questa fase è dato, però, dalla presenza di gruppi distinti di
fosse da butto in muratura (una nel vano A e tre nel vano B), inserite nella
roccia di base, costruite praticamente in batteria e rimaste in uso fino alle
ultime fasi del castello, agli inizi del ‘600. Sono costruite da semplici
strutture a volta a pianta rettangolare, realizzate in mattoni, con una o due
caditoie con chiusino a botola.
Particolare della stanza B a fine scavo: in primo piano si intravede la
controvolta esterna di una delle tre camere interrate utilizzate come discarica,
sullo sfondo le caditoie in cui venivano buttati i materiali di rifiuto
Queste discariche erano usate in successione e quando una era riempita, la botola veniva chiusa e saldata, in modo che non si spargessero effluvi spiacevoli. Al livello alto, in corrispondenza dell’ambiente maggiore delle fosse, appariva solo un muro con allineamento di stanzette quadrate con porta dotata di soglia, entro le quali era la botola da cui venivano fatti cadere i rifiuti.
L’interno di una delle discariche: notate, sulla destra, la lastra di pietra che
fungeva da chiusura della caditoia (chiusino)
Lo scavo di queste discariche ha permesso il recupero di una quantità impressionante di maioliche, alcune già restaurate e la maggior parte in corso di ricomposizione. Sono presenti in pratica tutte le fasi delle produzioni di maiolica: dai tipi arcaici testimoniati da numerosi boccali, alcuni dei quali con lo stemma dei Malatesta con scudo a bande trasversali a scacchiera, alla “zaffera a rilievo”. Dalle coppe e piatti in stile “gotico floreale” o “alla porcellana”, con motivi decorativi o simbolici, come il grande piatto da esposizione dei Montefeltro con l’aquila a testa cornata, alle meno numerose le graffite rinascimentali di produzione ferrarese o le maioliche istoriate rinascimentali cinquecentesche, fino ad arrivare ai compendiari faentini dei primi del ‘600.
Questo disegno illustra bene i processi di formazione di un butto domestico
(Riccardo Merlo, La seconda vita delle cose, Trento
©1999)
Eclatante è stato il restauro del tetto antico -trasformato in terrazza da un innalzamento- che ha portato i nostri tecnici ad effettuare uno scavo archeologico sulla massima sommità della struttura della rocca. Lo svuotamento controllato ha messo in luce i coppi e gli scarichi per l’acqua originari, e ha permesso anche di recuperare, oltre ad altro materiale, molte punte di frecce da balestra delle esercitazioni degli arcieri, evidentemente cadute e lasciate nel terreno del Campo degli Arcieri e dei piani della grillanda, zone da cui era stato preso il terreno del riempimento.
La copertura originaria del XIV secolo della camera detta “dell’Imperatore”,
riportata in luce dagli scavi archeologici: notate i due camini, sui lati lunghi
La rocca è strutturata su tre piani: i lavori eseguiti negli anni ’50 del
secolo scorso dal Genio Civile, pur ridando alla rocca la sua imponenza, ne
avevano completamente falsato le strutture, modificando piani d’uso, quote e
pavimenti.
In alcuni punti, come nei locali C e D, il terreno era stato asportato fin quasi
alla roccia, mentre nei locali A e B era stato livellato fino alla quota delle
nuove soglie della corte interna. I terreni usati per i riempimenti e per
rialzare i pavimenti erano quelli ricavati da altri lavori di scasso e
fondazione, pieni quindi di frammenti ceramici e di oggetti.
Noi abbiamo eseguito gli svuotamenti dei locali sopra indicati, recuperando i
materiali; i lavori di scavo archeologico vero e proprio -esclusi gli
svuotamenti- hanno interessato esclusivamente gli ambienti del piano di
corte. Alla fine, sono state lasciate in vista e musealizzate le strutture
rinvenute all’interno degli ambienti A e B, mentre quelle negli altri ambienti,
dopo essere state rilevate, sono state protette, ricoperte e chiuse sotto i
nuovi pavimenti.
GLI
AFFRESCHI ALL'ULTIMO PIANO DELLA ROCCA
Nell’ampio salone all’ultimo piano della rocca ci sono ampi affreschi
risalenti alla seconda metà del Trecento che testimoniano la dignità e
spettacolarità che questo luogo doveva avere nei tempi lontani del suo
splendore.
Gli affreschi furono realizzati sotto il mandato del Malatesta detto l’Ungaro
perché nel 1348 aveva ricevuto un’onorificenza dal re d’Ungheria. Di quello che
in origine doveva essere un ciclo di grande respiro rimangono in questa sala
trapezoidale, con copertura a volta ogivale, definita nei documenti del
Quattrocento “camera dicta vulgariter dell’Imperatore”, ampi brani
pittorici sui lati brevi. Sulla parete occidentale, all’interno di un grandioso
baldacchino, campeggia la maestosa figura di un uomo armato, probabilmente
l’Imperator delle cronache, che reca lo scettro nella mano destra e la spada
nella sinistra; la lunetta soprastante è decorata con un’animata battaglia di
fanti con armamento leggero. Per l’identificazione del monumentale personaggio
sono state avanzate alcune ipotesi: potrebbe essere Tarcone, figlio di
Laomedonte re di Troia, cugino di Ettore e di Enea e, sulla base di una leggenda
divulgata nella seconda metà del Trecento, presunto capostipite della famiglia;
o potrebbe trattarsi di Ettore o di Enea o di Scipione l’Africano che per
Sigismondo Pandolfo Malatesta acquisterà un ruolo determinante, come attestano i
superbi rilievi quattrocenteschi realizzati nel Tempio di Rimini da Agostino di
Duccio.
Sulla parete orientale doveva in origine figurare la fase conclusiva di un
combattimento equestre: cavalieri in fuga inseguiti da altri cavalieri.
La decorazione doveva poi proseguire lungo la volta ogivale con una duplice
serie di grandi medaglioni quadrilobati (tipo quelli realizzati da Giotto nella
Cappella degli Scrovegni a Padova) entro cui si disponevano a mezzo busto figure
di personaggi dell’antichità, individuabili grazie all’iscrizione declaratoria.
Il ciclo pittorico è stato attribuito al bolognese Jacopo Avanzi, pittore
forgiatosi sulle esperienze grottesche padovane e collaboratore di Altichiero
negli affreschi della Cappella di San Giacomo a Padova realizzati nella seconda
metà del Trecento. Gli affreschi della rocca furono realizzati probabilmente nel
decennio compreso fra il 1362 e il 1372.
Per le notizie sugli affreschi: Cetty Muscolino, “A proposito di un
importante ciclo pittorico”, in Montefiore Conca. Passato e futuro della
rocca malatestiana, pagg. 85-94, Maggioli Editore, 2003 Forlì
IL PROGETTO ESPOSITIVO (Arch.
Franco Roberti)
Ampliamento e completamento della sezione archeologica permanente dalla Rocca di
Montefiore Conca
Il nuovo spazio espositivo che ospita la mostra
completa quello già presente all’interno della stessa Rocca, venendo a costituire una specifica area didattica museale autonoma, attraverso la quale i reperti
potranno essere restituiti appieno alla Comunità.
Lo spazio espositivo è stato raddoppiato con l’allestimento di una seconda sala
collocata al piano inferiore; entrambe le sale sono al di sopra delle aree
archeologiche interne ora musealizzate con il titolo “Stanza della cisterna e
Stanza dei butti”.
Da questa nuova sala si accede quindi sia alla seconda sala superiore che
all’attigua “Sala dell’Imperatore”. Il nuovo spazio si viene a trovare pertanto
in una particolare ed importante situazione di transito obbligato, certamente
molto frequentato dai visitatori interessati all’intero complesso. Su un lato dell’ambiente quadrangolare è
infatti presente la scala di accesso
dal piano inferiore; sulla parete contrapposta è invece presente la scala in
metallo e legno che porta alla sala del piano superiore; sul lato della parete
interna vi sono invece i due stretti ed unici varchi che danno accesso al grande
volume della “Sala dell’Imperatore”.
Le sette vetrine della precedente esposizione sono state modificate per
migliorarne l'efficienza e integrate con altre nuove vetrine necessarie per
esporre l'ulteriore materiale archeologico che ora, dopo gli ultimi interventi
di restauro, assomma a circa 120 reperti di varia natura ed epoca. D'intesa con
l'archeologa Annalisa Pozzi e il restauratore Mauro Ricci della Soprintendenza Archeologia dell'Emilia-Romagna, si è deciso di frazionare la
superficie espositiva in spazi più ridotti al fine di agevolare l’osservazione
da parte dei visitatori.
A completamento della parte espositiva, sono stati realizzati pannelli
didattici per le didascalie degli oggetti esposti nell'area
specifica. Ogni sala è poi dotata di una panca circolare per la sosta e il
ristoro del pubblico, presumibilmente provato dai dislivelli superati per
raggiungere l’esposizione nel percorso interno alla Rocca che risulta infatti
stupendamente verticale.
La mostra è stata inaugurata Sabato 11 giugno 2011
ore 17.30 al Teatro Malatesta di Montefiore Conca
alla presenza di
Vallì Cipriani
Sindaco di Montefiore Conca
Filippo Maria Gambari
Soprintendente per i Beni Archeologici dell'Emilia-Romagna
Antonella Ranaldi
Soprintendente per i Beni Architettonici e Paesaggistici di Ravenna
Massimo Lazzarini
Presidente Banca Popolare Valconca
Enzo Donald Mularoni
Presidente Ceramica del Conca Spa
Simone Biondi
Archeologo