La bellezza -e il suo
contrario- è negli
occhi di chi guarda.
Basta giocare con una "r" per scoprire il mondo di ciò che, rotto,
imperfetto o malriuscito, diventa brutto ed è
scartato, eliminato. Buttato, appunto.
Ma il fatto che finisca in un "butto" non implica che sia "brutto"
o inutile.
Noi siamo ciò che scartiamo, lo siamo sempre stati.
Ma perché buttiamo e,
soprattutto, cosa, come e perché buttavano in passato? A distanza di secoli questi pezzi rivelano tutta la loro bellezza, sia
come frammenti di prestigiose ceramiche, che come scarti d'artista.
Diventando i messaggeri di un'epoca, un gusto, un modo di vivere, un'ispirazione...
Il Bello dei Butti
Rifiuti e ricerca archeologica a Faenza tra Medioevo ed Età Moderna
Museo Internazionale delle Ceramiche
Viale Baccarini n. 19 a Faenza (RA)
Da mercoledì 29 ottobre 2008 a domenica 1 marzo 2009
martedì-giovedì 9,30-13,30 - venerdì-domenica 9,30-17,30
Ingresso € 6,00
Info 0546.697311
La mostra illustra parte dei rinvenimenti effettuati a Faenza dalla
Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna nel corso degli
ultimi 15 anni. Un buon numero di queste scoperte è costituito dai
“butti”, termine con cui indichiamo quel complesso di materiali (ceramica,
vetro, metallo, resti di pasto ed altro) che veniva appunto buttato come
spazzatura.
A Faenza, come in molte altre città, esistevano norme precise che si interessavano dello smaltimento
dei rifiuti, prima fra tutte quella che vietava ai privati di disperderli in luoghi pubblici. Spesso
accadeva quindi che pozzi, cisterne e cavità sotterrane fossero riconvertite in
discariche per lo smaltimento dei rifiuti domestici.
Lo studio di questi materiali -che sono prevalentemente il risultato delle
attività legate alla preparazione, cottura e conservazione dei cibi- rappresenta
per l’archeologo uno dei principali strumenti per comprendere la vita quotidiana
del passato. Oltre a questo, lo scavo dei butti ha consentito il recupero di
un’ingente quantità di ceramiche prodotte a Faenza ed in altre zone d’Italia tra
la fine del XIV ed il XVIII secolo.
Vista la sede della mostra, non abbiamo ritenuto utile soffermarci sulle
caratteristiche delle singole tipologie ceramiche, rimandando, per un
approfondimento del tema, ad una visita al MIC (Museo Internazionale per la
Ceramica).
Abbiamo cercato invece di
considerare i butti rinvenuti come contesti da leggersi nel loro complesso, per
i dati di carattere economico e sociale che possono fornire.
La mostra è curata dall’archeologa Chiara Guarnieri ed è realizzata dalla
Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna e dal Museo
Internazionale delle Ceramiche in Faenza, con il sostegno della Banca di Romagna
e di Romagna Acque.
Il rinvenimento di butti legati
all'attività delle officine dei ceramisti, presenti in gran numero a Faenza, ha
suggerito di articolare l'esposizione in due percorsi: il primo affronta il tema generale dei
butti nel contesto faentino, l’altro tratta quello della produzione dell’oggetto
in ceramica, dalla foggiatura al momento della sua immissione sul mercato.
La spazzatura però non è solo uno strumento di conoscenza del passato ma può
anche diventare ispirazione d’arte, come testimonia la mostra di Bertozzi &
Casoni "Nulla è come appare. Forse", allestita al MIC fino all'11
gennaio 2009, che la riproducono con impressionante realismo.
I rinvenimenti a Faenza (1992-2007) Proprio perché ricchi di oggetti molto spesso integri o in buono stato di
conservazione, fino a pochi decenni fa i “butti” sono stati facili prede degli scavatori clandestini
che, dopo aver smembrato il contesto, vendevano ai collezionisti gli oggetti più
appetibili. Ciò ha comportato non solo la perdita di moltissimi reperti ma
soprattutto l’irreparabile dispersione di importanti dati di tipo economico e
sociale che possono essere ricavati solo dallo scavo integrale di un butto.
Il recupero integrale di un consistente numero di “butti”, frutto del costante
intervento della Soprintendenza per i Beni Archeologici nel centro storico di
Faenza durante nuove edificazioni e
ristrutturazioni, ha notevolmente arricchito le conoscenze archeologiche della
città. Si tratta di butti distribuiti nell’arco di circa quattro secoli, per la maggior parte provenienti da ambiti familiari, anche se non mancano rinvenimenti
riferibili a contesti religiosi e alle numerose attività artigianali legate alla
produzione ceramica, presenti in gran numero in città.
Che cos’è un butto? Come detto, con il termine “butto” intendiamo quell'insieme di ceramiche, vetri, metalli, legni, resti di pasto e altro che veniva buttato come pattume. È evidente il carico di informazioni fornite da questo tipo di immondizia. Le stoviglie ci informano sulla cucina e sulla tavola di tutti i giorni così come su quella della grandi occasioni, ossa e resti vegetali sulle abitudini alimentari, gli oggetti su alcuni aspetti dell’abbigliamento e della vita quotidiana. Gli oggetti d’uso, come gli scaldini e i pitali, sulle pratiche correnti nella vita quotidiana. Pur nella sua parzialità, il quadro ci permette di indagare alcuni aspetti che difficilmente possono essere restituiti da altre fonti.
I rifiuti, un problema sempre attuale. Fin dal Medioevo, in molte città esistevano precise norme che si interessavano dello smaltimento dei rifiuti e che dimostrano l’esistenza di una consapevolezza del legame tra gestione dei rifiuti e controllo dell’igiene pubblica. Ciononostante, soprattutto in età medievale, le norme sono volte più a vietare la dispersione della spazzatura nei luoghi pubblici che a organizzare discariche.
In linea di massima tutto quanto poteva essere riciclato, come il vetro o il
metallo, veniva rivenduto, così come il legno, bruciato per produrre calore. I
resti dei pasti erano spesso seppelliti, fungendo così da concime per l’orto. Se
non si poteva procedere in questo modo o se la famiglia era particolarmente
benestante -e non era quindi “ economico” avviare un riciclo- si provvedeva a
smaltire in proprio i rifiuti.
Anche se si cercava di coinvolgere i cittadini,
imponendo di tenere pulite le strade davanti alle case, accadeva che i rifiuti
venissero gettati più o meno dove capitava e che spesso si ricorresse ad una
sorta di “fai da te” per lo smaltimento dei rifiuti. Ecco quindi che orti e
giardini, pozzi, cisterne e cavità sotterrane in disuso sono riconvertiti in
discariche per lo smaltimento dei rifiuti domestici.
Lo
smaltimento delle acque sporche, piovane o dei rifiuti organici era in parte
risolto dalla rete idrica urbana e, nelle città che ne erano dotate, dai fiumi, che divenivano il
veicolo principale per sbarazzarsi dei
rifiuti di ogni genere. Negli Statuti faentini del XV secolo si fa esplicito riferimento all’esistenza di un servizio pubblico di ripulitura dei
pozzi e dei canali (che però spesso non funzionava).
Ciononostante era estremamente diffusa l’abitudine di gettare dalle finestre
liquidi di ogni natura ed in particolare il contenuto di pitali. Il lancio
veniva preceduto dal grido “guarda, guarda, guarda!”.
Man mano che ci addentra nell’Età moderna, le città vengono attrezzate con aree
per lo smaltimento dei rifiuti, soprattutto di quelli più inquinanti, come gli
scarti delle attività di concia o di macellazione. Nella Roma del XVIII secolo,
per esempio, esistevano 228 immondezzai pubblici e le persone che operavano
nelle strade erano circa 64, uno ogni 2300 abitanti. Come in tutte le altre
città italiane, anche qui il fiume svolgeva una funzione importante.
Che cosa si mangiava a Faenza? I risultati delle analisi botaniche e faunistiche
dei butti.
Una delle informazioni più importanti fornite dallo studio di un butto è quella
relativa alle abitudini alimentari. Buona parte dei butti faentini
presentava anche residui di pasto, costituiti da ossa animali e resti vegetali.
Per quanto riguarda l’alimentazione carnea, i butti documentano un buon consumo
di uccelli, in particolare polli e fagiani, tra le specie da cortile, e in
misura minore qualche esemplare di pernice, beccaccia, beccaccino e gabbiano,
tra le specie selvatiche. Tra i mammiferi, il più rappresentato è il maiale
seguito dalla pecora e dal bue.
Il sito della Scuola Ballardini ha restituito una notevole quantità di
ostriche di dimensioni ragguardevoli, un dato che riconduce a persone
appartenenti ad un ceto abbiente visto che questa specie è legata a contesti
sociali elevati. Venivano mangiate in abbondanza anche le “poveracce”, ossia le
vongole, che costituivano un cibo “di magro”, previsto per 140-160 giorni
l’anno.
Il butto di via Micheline ha restituito una campionatura sufficiente a definire
gli aspetti anche dell’alimentazione vegetale.
L’uva è presente seppure in quantità così limitata da non poterne ipotizzare un
utilizzo finalizzato alla vinificazione quanto piuttosto come componente della preparazione
di carni, pesce e verdure. Nel famoso ricettario di Cristoforo da Messisbugo,
scalco alla corte estense tra la fine del XV e la prima metà del XVI secolo,
l'uva figura come ingrediente di oltre la metà delle ricette. Oltre a questo
frutto, i butti faentini documentano anche la presenza del fico e delle more di
rovo.
Tra le verdure è presente in notevole quantità la portulaca o porcellana,
un’erba spontanea -ora raramente utilizzata in cucina- che veniva mangiata in
insalata oppure cotta. Documentata in discrete quantità anche l’anice, che
veniva coltivato per i suoi usi alimentari e officinali.
Dalla cucina e dalla tavola. I butti databili tra la fine del XIV secolo e gli
inizi del XVI. I quattro butti rinvenuti in corso Mazzini, via Micheline,
via Severoli (palazzo Cattani) e via Fadina sono inquadrabili nel periodo che va
dalla fine del XIV all’inizio del XVI secolo. Si tratta di butti relativi ad
attività domestiche, con oggetti utilizzati per la preparazione dei cibi, o
comunque riservati alla cucina, ed altri destinati alla tavola. Tra i
primi troviamo catini decorati in verde e marrone, alcune pentole da fuoco e
olle molto semplici, per la conservazione, con impermeabilizzazione interna. Gli
oggetti riservati alla tavola sono tutti di discreta qualità: sono presenti
alcuni boccali decorati con stemmi, in taluni casi di difficile attribuzione.
Molto noto invece è lo stemma della famiglia Manfredi, signori di Faenza dal
1313 al 1505. Nel caso del boccale di palazzo Cattani lo scudo è arricchito con
il capo d’Angiò, aggiunto all’arma da Francesco I Manfredi come atto d’ossequio
a Roberto d’Angiò, re di Napoli.
Dal medesimo butto proviene un frammento di boccale, di tipo raramente diffuso.
La parte destinata ad ospitare la decorazione non è stata smaltata e questa
peculiarità ci fa capire come il ceramista creasse oggetti di valenza
universale, per poi personalizzarli solo dopo l’acquisto; nel caso faentino è
stato dipinto, con i colori “a freddo”, uno stemma.
Tra la fine del XV e gli inizi del XVI secolo Faenza fu caratterizzata da una
produzione, non particolarmente diffusa, di statuine ed oggetti a tutto tondo; a
parte alcune opere di particolare importanza, la produzione era incentrata su
calamai e servizi da scrittoio, a cui potrebbe appartenere il frammento di
figura femminile dipinta in giallo e blu proveniente da palazzo Cattani. Al
medesimo periodo appartengono anche piccole statuette di santi e giocattoli,
tipologie documentate in mostra dalla figura di S. Caterina d’Alessandria e da
una biglia, entrambe provenienti dal medesimo butto di palazzo Cattani.
Di
notevole interesse è infine il rinvenimento nel butto di corso Mazzini di una
ciotola in maiolica berettina (con il fondo azzurro) decorata con il tipico
attributo dell’astrologo, una sfera armillare tolemaica, costituita da una serie
di anelli metallici che rappresentavano i cieli. Un esemplare di ciotola del
tutto simile, quasi certamente uscito dalla stessa officina, fu recuperato in
sterri urbani ed è ora esposto all’inizio della mostra.
Dalla cucina e dalla tavola. I butti del XVI secolo. I butti attribuibili al
XVI secolo sono tutti situati a poca distanza l'uno dall'altro: corso Baccarini
(Istituto d’Arte per la Ceramica "G. Ballardini"), via Campidori e via Mazzini
(palazzo Grecchi).
Anche in questo caso si tratta di scarichi relativi alle attività domestiche,
che comprendono quindi stoviglie utilizzate in tavola ed in cucina, vetri, resti
di pasto ed altri oggetti di uso quotidiano, come una piccola fibbia da scarpe
ritrovata in via Campidori.
In questo periodo le stoviglie da tavola più diffuse sono la ciotola emisferica
ed il piatto, che vengono decorati con soluzioni varie ma estremamente
standardizzate. E’ infatti nel XVI secolo che si inizia ad affermare il servizio
da tavola inteso come corredo più o meno articolato (ciotola e piatto a cui si
potevano aggiungere la scodella ed altri oggetti di diverse dimensioni),
decorato in modo omogeneo a formare l’occorrente per il singolo commensale.
Inizialmente destinati alle comunità religiose o alle famiglie più abbienti, i
servizi divennero in seguito uno standard diffuso.
Il quadro "Il mangiafagioli" di Ludovico Carracci, che ritrae un popolano a
tavola, è l’immagine fotografica di cosa si trovava comunemente sulle tavole di
quel periodo: una brocca in ceramica graffita per il vino, un calice in vetro ed
una ciotola smaltata, tutti oggetti rinvenuti nei butti faentini coevi. Forse
l'unica differenza risiede nel cucchiaio, in legno quello del quadro, in bronzo
quello rinvenuto nel butto dell’Istituto d’Arte per la Ceramica.
Quest’ultimo,
pur essendo abbastanza circoscritto, ha restituito oggetti di un certo
interesse, che permettono di circostanziare il momento in cui venne gettato. Un
piedistallo in ceramica decorato con la scena di una volpe che rincorre una
lepre riporta, nella parte inferiore, la data di realizzazione, il 1575, apposta
dal ceramista. Oltre a questo oggetto è stato recuperato anche un sigillo da
lettera in piombo, appartenente alla famiglia Delfini/Zucchini, decorato con la
figura di tre delfini, animale simbolo della famiglia. Matteo Delfini
(menzionato per la prima volta nel 1572 con il nuovo cognome Zucchini) si
trasferì a Faenza da Bologna prima del 1564 e nel 1586 fece erigere nella chiesa
di S. Domenico una tomba famigliare con lo stemma di un delfino, a richiamo
all’antico cognome di famiglia.
L’area dell’Istituto d’Arte per la Ceramica era stata oggetto, tra il 1971 e il
1972, di una serie di interventi finalizzati all’ampliamento della
struttura. La mostra offre l’occasione per presentare al pubblico parte di quei
rinvenimenti e ricongiungerli a quelli effettuati nel 2007. Il recupero più
sorprendente fu certamente quello di un tesoretto di monete, ritrovato a fianco
di uno scheletro, forse un soldato seppellito in tutta fretta in una cavità (un
pozzo?); è assai probabile che le monete fossero nascoste sulla suo cadavere e
che ciò le abbia preservate dall'inevitabile furto. Si tratta di un vero e
proprio tesoro, sia per l’importanza che per la rarità dei pezzi: coniate
attorno alla metà del XIV secolo, le monete provengono da svariati luoghi, non
solo italiani. Si tratta di fiorini delle zecche di Firenze e Milano, ducati di
Venezia, genovini di Genova oltre ad esemplari ungheresi e francesi; c'è anche
una fibbia, molto probabilmente pertinente al sacchetto nel quale erano
conservate.
I lavori del 1972 hanno recuperato anche un singolare boccale in maiolica
arcaica, con una rappresentazione che al momento è un unicum nel panorama
faentino e non solo. La scena raffigura una donna che regge nella mano destra un
falco mentre con la sinistra tiene per le redini l'uomo che sta cavalcando. Si
tratta dell’episodio di cui sono protagonisti il filosofo Aristotele e la
cortigiana Fillide di cui era perdutamente innamorato. La decorazione tuttavia
alludere in maniera allegorica al dominio della donna sull’uomo, tema assai
popolare sia nel Tardo Medioevo che nel Rinascimento.
Dalla cucina e dalla tavola. I butti del XVIII secolo. Il ruolo
dominante che per tutto il 1600 ebbero nel panorama della produzione ceramica i
cosiddetti Bianchi di Faenza proseguì e prese nuovo vigore nel Settecento,
secolo a cui appartengono i due butti di via Torricelli e via Matteotti.
Il primo, rinvenuto in un silos all'interno di palazzo Ragnoli (via Torricelli),
è composto da pochi oggetti molto consunti, il che dichiara la povertà del suoi
possessori: un solo piatto (con un semplice decoro a peducci sulla tesa) è in
ceramica smaltata mentre gli altri sono realizzati ad ingobbio. Uno di questi
presenta anche un restauro antico, realizzato legando assieme i pezzi con del
filo di ferro; il rimanente materiale è costituito da stoviglie da fuoco e da un
pitale.
Di tutt'altro tono è il recupero effettuato in via Matteotti, un repertorio
eccezionale degli oggetti in circolazione a Faenza nel XVIII secolo: centinaia
di stoviglie sia destinate alla tavola che utilizzate in cucina. I numerosi
piatti e catini in ceramica smaltata bianca colpiscono per la particolare
grandezza mentre, tra le ceramiche ingobbiate, si segnalano tre pitali decorati
con elementi vegetali in blu o policromi.
Di particolare interesse -e tipica del 1700- è anche la produzione di stoviglie
per la tavola realizzate con la medesima argilla utilizzata per le pentole da
fuoco, dal caratteristico color terracotta e con decori in ingobbio giallo sotto
vetrina. Si tratta di materiali realizzati dalle fornaci di “terra rossa”, la
cui produzione era incentrata soprattutto sulle stoviglie da fuoco (come
pentole, tegami e coperchi) ma che prevedeva anche la realizzazione, in numero
minore, di oggetti per la tavola di costo economico, come i piatti e le scodelle
presenti in mostra. Sappiamo che nel XVIII secolo alcuni centri della Romagna,
tra cui Faenza, importavano questo tipo di recipienti dal bolognese, esportando
nel contempo servizi in maiolica.
Molto significativo anche il recupero di un discreto numero di scaldini
(recipienti rotondeggianti con un manico sopraelevato) di provenienza ligure, a
dimostrazione della diffusione di un prodotto specifico anche in aree che già
disponevano delle proprie officine artigiane.
Gli scaldini, di provenienza ligure, rinvenuti nei butti del XVIII secolo
Dalle
comunità religiose. Le indagini archeologiche condotte nei complessi
conventuali portano in genere al recupero di consistenti nuclei di ceramiche
utilizzate dalle comunità religiose dal Basso medioevo all’Età Moderna.
L’approvvigionamento delle ceramiche dei monasteri è un fenomeno complesso.
Accanto a ceramiche presenti anche in contesti laici, troviamo produzioni
decorate con generici temi religiosi -ad esempio il Golgota o il trigramma di S.
Bernardino (IHS)– oppure con sigle che identificavano gli oggetti a destinazione
comunitaria, come la cucina, la dispensa o il parlatorio. Oltre a queste
produzioni per così dire generiche, che potevano andare bene per qualsiasi
comunità religiosa, esistevano anche partite di ceramiche realizzate su
commissione dei singoli conventi, con sigle alludenti al santo protettore o
immagini dello stesso.
Le ricerche hanno evidenziato che le ceramiche rinvenute nei monasteri femminili
sono spesso caratterizzate da sigle di appartenenza; queste ultime o sono
graffite all’esterno dei recipienti oppure, a partire dal XVI secolo, sono
personalizzate con sigle che vengono richieste espressamente al ceramista. Ciò
pare attestare la volontà di distinguere le ceramiche di uso personale che
venivano a far parte della dote che ogni suora portava al convento.
Lo scavo di questi butti consente quindi all’archeologo di investigare la vita
quotidiana che si svolgeva all’interno delle comunità religiose.
Purtroppo questo tipo di rinvenimento scarseggia a Faenza. Il recupero di alcuni
scarichi, di piccola entità, nell’area del Vescovado, ha portato alla scoperta
di due piatti realizzati su commissione, probabilmente pertinenti ad un più
nutrito gruppo di oggetti (le cosiddette “credenze”) commissionati
specificatamente ai più famosi artigiani del tempo. Il primo è un piatto
appartenuto al cardinale Annibale Grassi (1537-1590), vescovo a Faenza tra il
1575 e il 1588, firmato da Don Pino Bettisi (DO PI). L’altro esemplare
appartiene al cardinale Bernardino Spada (1594 –1661), eletto nel 1626.
Di notevole interesse il rinvenimento, all’interno di un silos nel convento
della chiesa della Commenda, di due targhe decorate con la Croce di Malta,
purtroppo prive di un contesto che ci possa permettere di datarle con
precisione. E’ suggestivo pensare che possa averle volute Fra Sabba da
Castiglione in persona, cavaliere Gerosolimitano nel 1505, chiamato alla
Commenda di Faenza nel 1515.
Dalle officine. Già dalla metà del XV secolo la parte occidentale
della città, in particolare attorno alla parrocchia di S. Vitale, si configurava
come un vero e proprio quartiere artigianale occupato da numerosissime fornaci.
Qui sorgevano le botteghe dei più famosi ceramisti come i Calamelli, i Pirotti,
i Viani, i Dalle Palle.
Nel periodo compreso tra il 1501 e il 1540 esistevano a Faenza più di 260
botteghe, che occupavano a vari livelli circa un migliaio di persone su una
popolazione totale di circa 12 mila. La produzione doveva essere enorme: ad
esempio nel 1564 l’officina di Francesco Mezzarisa fabbrica 7025 oggetti di cui
la metà da consegnare entro 72 giorni dall’ordine.
Si comprende quindi che tali attività producessero un’enorme quantità di scarti:
materiali per l’infornamento, come caselle e distanziatori, che venivano
smaltiti una volta rotti od usurati; biscotti che presentavano difetti, ma anche
scarti di cottura, eliminati sia nella prima fase di preparazione, con lo smalto
ancora crudo, che in una seconda fase, quando l’oggetto era già pronto ma
presentava qualche difetto che ne impediva la commercializzazione.
Non bisogna pensare che tutti gli oggetti finiti, se imperfetti, venissero
scartati: esisteva infatti una commercializzazione anche di oggetti “di seconda
scelta”, che per tale motivo risultavano più economici.
Solo una parte di questi scarti di lavorazione era riutilizzato come isolante
nelle preparazioni pavimentali; la maggior parte degli scarti finiva invece in
cavità sotterranee, come nel caso di Cà Pirota, oppure veniva gettata al di
fuori delle mura urbane, come è documentato dal rinvenimento delle mura del
Portello (nell’area dell’Ospedale).
Faenza è ricchissima di questo tipo di scarichi; purtroppo però in passato
questi venivano scavati “scegliendo” il materiale più pregiato, come le
smaltate, mentre il resto veniva semplicemente disperso.
In realtà i materiali di scarto ci raccontano come si lavorava all’interno di
un’officina: ne sono un esempio le numerose prove di decorazione realizzate a
pennello su biscotto, utilizzato come se fosse un foglio di carta, dagli allievi
più giovani del ceramista.
Per questo motivo lo studio integrale di questi nuclei è molto importante per
conoscere tutto quanto era in uso e si produceva in una fornace.
La
spazzatura è storia (ma anche arte….). Lo studio della spazzatura non
riguarda solo le Età storiche ma interessa anche la contemporaneità. Ne è un
esempio lo studio denominato Garbage Project (Progetto Spazzatura) avviato nel
1973 dall’Università dell’Arizona. L’obiettivo era quello di studiare i
mutamenti dei consumi e della distribuzione delle risorse in una città moderna
attraverso tecniche strettamente archeologiche, procedendo alla raccolta
sistematica dei rifiuti nei bidoni cittadini e alla loro analisi e
quantificazione. Lo studio rivelò, per esempio, che il consumo della birra,
determinato dalla quantità e dalla tipologia delle lattine gettate, non
concordava con quanto emerso dalle interviste dirette. Lo studio dell’Università
dell’Arizona si estese in seguito anche alla “Fresh Kills Landfill” di Staten
Island, New York, una discarica che, nel 1991, aveva raggiunto dimensioni tali
da contenere nel suo volume 25 volte la grande piramide di Giza.
L’immondizia è stata oggetto d’ispirazione anche per l’arte: basti pensare ai
bellissimi pavimenti in mosaico, chiamati asaraton oikos (stanza non spazzata),
che ornavano i triclini delle domus romane.
E il discorso potrebbe continuare anche nell’età contemporanea. Si pensi a
quanti artisti hanno presentato opere d’arte realizzate con l’immondizia e i
rifiuti del quotidiano, da Marcel Duchamp a Robert Rauschenberg, ai sacchi di Alberto Burri.
La stessa chiusura della grande discarica di New York ha ispirato numerosi
artisti che al New House of Contemporary Art di di Staten Island hanno
realizzato la mostra "Fresh Kills: gli artisti rispondono alla chiusura della
discarica di Staten Island". Tra questi, ricordiamo Steven Siegel che ha
riproposto una simulazione della discarica di rifiuti con oggetti che gli sono
stati donati dagli stessi cittadini newyorkesi.
Anche l’esposizione faentina mostra un
esempio di contaminazione tra arte e spazzatura, con le opere di Bertozzi & Casoni che
reinterpretano e riproducono con impressionante realismo tutto quanto viene
scartato nella vita di tutti i giorni.
Download del pieghevole della mostra (Acrobat Reader)
Il Museo Internazionale delle Ceramiche in Faenza
Faenza è in tutto il mondo sinonimo di ceramica. Per secoli le manifatture
faentine hanno rivestito un ruolo di fondamentale ispirazione per la produzione
ceramica europea.
A celebrare quell’ininterrotta tradizione Gaetano Ballardini fondò nel 1908 il
Museo Internazionale delle Ceramiche, quale punto di riferimento per la ceramica
antica, moderna e contemporanea, nazionale ed internazionale.
In quell’anno la città di Faenza festeggiò il terzo centenario della nascita di
Evangelista Torricelli, lo scienziato concittadino inventore del barometro, con
l’esposizione che raccolse nelle sale dell’ex convento di San Maglorio – che poi
ospitarono il Museo – prodotti di molte manifatture italiane ed europee accanto
ad esemplari di antiche fornaci, soprattutto italiane. Tale evento segnò nel
1908 una rinascita culturale della città e la donazione delle opere ceramiche
esposte costituì il punto di partenza del Museo. Esso ebbe il patrocinio di
illustri personalità della cultura e dell'arte, d'ambito nazionale e
internazionale, che ne facilitarono l’avvio. Il comitato locale intanto, in uno
statuto approvato con Regio Decreto il 19 luglio 1912, gettava le basi per il
futuro sviluppo del MIC, facendo emergere fra le motivazioni istituzionali
quella di “raccogliere e disporre sistematicamente i tipi della produzione
ceramica italiana e straniera”; pubblicare uno speciale bollettino di studi
storici e di tecnica dell’arte ceramica; indire mostre periodiche di ceramica;
“divulgare il gusto della decorazione ceramica, in modo da intensificare il suo
uso estetico e nazionale nella casa, nell’architettura e nell’ambiente”; “indire
concorsi internazionali per la produzione di oggetti d’uso pratico, e sotto
l’aspetto della ricerca estetica e tecnica”.
Le collezioni di ceramiche del Museo, in un’ampia campionatura di documentazione
mondiale, si sono arricchite prima e dopo l’ultimo conflitto mondiale attraverso
acquisti ma soprattutto mediante donazioni. Il Museo faentino è, nel suo genere,
la più grande raccolta al mondo: il suo patrimonio storico artistico ammonta,
fra opere esposte e conservate in deposito a circa quarantamila pezzi. Accanto
alla Sezione delle Nazioni – nucleo iniziale più consistente – si raccolsero
esemplari di manifatture e di artisti viventi italiani, riuniti nel 1926 nella
Mostra permanente della moderna ceramica italiana d’arte. Nel 1916 si fondò la
Sezione dell’antica maiolica italiana, con particolare riguardo a quella
faentina e, nello stesso anno, si iniziò la Sezione delle ceramiche rustiche
delle regioni d’Italia, ovvero delle ceramiche popolari. Le collezioni
continuarono progressivamente ad arricchirsi di nuove opere: la Sezione
dell’Estremo Oriente fu ordinata nel 1919. Con estrema attualità verso gli studi
e con spirito precursore del valore archeologico del territorio il MIC si
rivolse anche allo studio dei frammenti ceramici. Vennero pertanto a
configurarsi ulteriori importanti sezioni dedicate alla didattica, ai frammenti
di scavo delle maioliche italiane del Rinascimento, alle ceramiche preistoriche,
al mondo classico ed a quelle del Medio Oriente: quest’ultima largamente
ampliata nel 1930 con la donazione del dottor Fredrik Robert Martin di
Stoccolma. A partire dagli anni Quaranta per giungere fino agli anni Ottanta a
seguito di diverse donazioni si andò altresì formando una consistente raccolta
di ceramica precolombiana.
La ceramica italiana contemporanea continuò ad essere documentata a partire
dagli anni Trenta con i Concorsi annuali del "Premio Faenza", che dagli anni
Sessanta divennero internazionali, permettendo così al Museo di acquisire opere
di artisti e di manifatture di tutto il mondo. Dal 1989 i concorsi
internazionali sono divenuti biennali.
Nel corso della seconda guerra mondiale i bombardamenti sulla città di Faenza,
specie quello del 13 maggio 1944, coinvolsero in maniera devastante anche le
raccolte e gli ambienti stessi del MIC, provocandone quasi l’intera distruzione.
A questi eventi seguì l’accorato appello lanciato dall’allora direttore Gaetano
Ballardini ad amici, studiosi, collezionisti, come ai principali musei ed enti
pubblici di tutto il mondo, affinché lo aiutassero a ricostruire le collezioni
ed il Museo stesso.
La ricostruzione del complesso museale fortemente voluta da Ballardini fu
possibile col concorso di enti ed amatori di tutti i Paesi e fu ultimata nel
1952.
Dagli anni Cinquanta ad oggi alcune importanti donazioni di ceramica antica,
moderna e contemporanea hanno contribuito ad accrescere notevolmente il
patrimonio artistico del MIC.
Tra gli scopi del Museo citati nello statuto del 1912 si prevedeva anche di
“raccogliere pubblicazioni in modo da offrire agli studiosi un materiale
bibliografico di critica, di storia, di arte, di tecnologia ceramica”. Nasce
così la Biblioteca specializzata che negli anni ha continuato ad accrescere in
maniera consistente il proprio patrimonio librario e documentario. La crescita
della Biblioteca subì un brusco arresto per lo stesso bombardamento del ’44 che
ne causò la completa distruzione. Nel dopoguerra venne ricostituita in parte con
i materiali salvatisi (circa quattromila tra volumi e opuscoli) e in parte con
alcune generose donazioni.
Il fiorire degli studi sulla ceramica nell’ultimo ventennio, una costante
politica di cambi e di acquisizioni hanno portato ad un incremento del
patrimonio della Biblioteca attualmente attestato sui sessantamila volumi, con
opere provenienti da tutto il mondo.
Dal 1913 vengono pubblicati la rivista bimestrale Faenza, repertorio di studi
storici sull’arte della ceramica, e una serie di testi di storia della ceramica,
di carattere anche didattico, oltre a volumi annuali sulle diverse Collezioni
del MIC dalla prima metà degli anni Ottanta. Un ausilio fondamentale per
gli studiosi fu dato dal costituirsi a partire dal 1927 della Fototeca della
Ceramica, voluta dal Ballardini come particolare strumento di documentazione
fotografica delle opere in ceramica conservate nelle collezioni pubbliche e
private di tutto il mondo. Un importante ruolo didattico è rivestito dal
Laboratorio “Giocare con l’arte”, ideato nel 1979 da Bruno Munari, col preciso
intento di fornire ai bambini una consapevole lettura degli oggetti del Museo,
attraverso lo svolgimento di attività manipolative. A questo convergono le
scuole materne, elementari e medie prevalentemente del territorio faentino,
includendo pure la partecipazione a corsi speciali di insegnanti, ceramisti
italiani e stranieri.
Compreso nella struttura del MIC è anche il Laboratorio di Restauro che con
specifica competenza tecnica si occupa della conservazione delle opere del
Museo, organizza corsi specialistici ed indirizza la propria attività anche a
committenti privati e pubblici.
Il Museo è stato interessato negli anni Novanta da un processo di trasformazione
che anche al presente, grazie all’aumento degli spazi espositivi, vuole mirare
ad una più razionale e ottimale presentazione delle opere al pubblico.
Nel 1996 ha preso avvio l'Istituzione Museo Internazionale delle Ceramiche in
Faenza e nel 2001 l’Amministrazione Comunale ha costituito la Fondazione con lo
scopo di conferire al Museo stesso una maggiore autonomia gestionale.