Pubblichiamo un riassunto dell'intervento del Soprintendente per i Beni Archeologici dell'Emilia-Romagna, Filippo Maria Gambari, in occasione della conferenza tenuta al Museo Civico Archeologico di Bologna nella giornata inaugurale delle Archeologite Bolognesi 2012
Il ruolo della birra sul piano dell’alimentazione, dell’economia di scambio e
del rituale del banchetto nella protostoria europea è stato spesso
sottovalutato, soprattutto a causa della scarsa disponibilità di riscontri
archeologici. La scoperta recente nella necropoli della cultura di Golasecca in
proprietà Baù di Pombia (NO) di un bicchiere d’impasto databile intorno al 560
a.C., collocato ritualmente sopra le ceneri nell’urna, con resti di una
probabile birra rossa di gradazione medio-alta ha richiamato ormai
definitivamente l’attenzione sull’importanza della birra nella tra Piemonte e
Liguria almeno fino alla progressiva diffusione dell’uva coltivata tra la media
età del Ferro (VI-V sec. a. C.) e l’età romana. Le particolari condizioni di
conservazione della tomba 11/95 in proprietà Baù hanno consentito per la prima
volta, attraverso le analisi condotte sul residuo anidro conservato nel
bicchiere collocato nell’urna cineraria, di individuare con buona probabilità la
natura di una bevanda presente come offerta funeraria all’interno di una tomba
golasecchiana. L’identificazione molto probabile della sostanza come birra con
luppolo comporta notevoli conseguenze sul piano dell’interpretazione della
realtà sociale, economica e rituale della cultura di Golasecca, ma in questa
sede importa soprattutto confrontarsi con le tradizioni ricavabili dalle fonti
antiche e dall’archeologia per l’utilizzo di bevande fermentate da cereali in
Piemonte e nell’Europa transalpina, trascurando per ragioni di spazio le altre
bevande alcoliche sicuramente presenti fin dalla preistoria nella nostra
regione, come l’idromele o i vini di frutta e uva selvatica.
Il grande sviluppo della linguistica celtica può oggi aiutarci a comprendere a
grandi linee le diverse denominazioni delle fonti latine e greche e a formulare
un quadro schematico di riferimento, facendo naturalmente le dovute riserve per
l’utilizzo probabilmente non sempre così preciso e differenziato della
terminologia, soprattutto da parte di fonti antiche non specifiche nell’intento
classificatorio e naturalistico. Cercando di adeguarsi all’impostazione
metodologica utilizzata da E. Sereni per indagare sulle più antica viticoltura
partendo dall’analisi storico-linguistica della terminologia specifica, filtrata
anche attraverso le fonti antiche, ci addentreremo dunque nel groviglio
terminologico applicato dagli antichi Greci e Romani (che per lo più non
l’apprezzavano) alla birra, confrontandolo con i pochi dati archeologici
utilizzabili per elaborare ipotesi di lavoro che potranno essere confermate solo
con un ampliamento della base documentaria disponibile e delle analisi di
laboratorio: scopriremo un lessico ricco ed articolato, adatto ad una
tipizzazione non lontana da quella delle attuali birre.
Tra le prime birre diffuse in Italia settentrionale è da collocare la alica o
arinca descritta minuziosamente in particolare da Plinio nel XVIII libro della
Naturalis Historia. Il nome si riferisce alla farina di un tipo di “farro”
(secondo Plinio) o meglio spelta di facile mondatura ed alla bevanda che se ne
ricava. Nella penisola italiana si sbiancava per motivi estetici la farina con
latte o con un gesso bicarbonatico dei Campi Flegrei e si aggiungeva acqua e, in
percentuali molto variabili, miele. Rinomata nel Veronese, nel Pisano ed in
Campania ancora in età romana, deve il suo nome ancora alla radice del lat. alo
“nutro” da i.e. *al- e si ricollega all’antico termine i.e. *alu, *alut “bevanda
amara, birra”. La variante arinca rispetto alla denominazione latina è da
intendersi come effetto del rotacismo celto-ligure. Proprio per l’ampia
diffusione delle attestazioni derivate da tale radice nelle lingue indoeuropee è
probabile che questo termine rappresenti la prima base identificabile del più
antico lessico europeo della birra. La prova della diffusione del termine viene
dal fatto che ad esso si ricollegano il nome antico celto-ligure dell’arinca
(“spelta”), cereale “proprio delle Gallie ed abbondante in Italia” (PLIN XVIII
81), e l’attuale termine inglese ale ”birra” oltre ad alcune sopravvivenze
dialettali, come nel Novarese (Oleggio), dove al[i]calan indica un “vinello
molto leggero”. La stessa ipotesi linguistica che attribuisce al sorbo il nome
celtico di alisia sembra creare un legame di radice con la birra alica, forse
giustificabile dall’uso di farina di sorbe come supplemento zuccherino nella
fermentazione, secondo la descrizione di Virgilio (Georg. 379-380). La
descrizione delle fonti non lascia dubbi sul fatto che si trattasse di norma di
una bevanda, pur se fermentata a caldo, poco alcolica, più nutriente, depurante
e tonificante che inebriante: la trattazione pliniana indica che chiaramente la
bevanda per antonomasia era ricavata dalla sola spelta, ma non si può escludere
che bevande analoghe fossero ricavate con miscele diverse di cereali, come
sembra desumibile dalla sopravvivenza del termine nelle denominazioni della
birra. Una bevanda simile è d’altra parte alla origine del termine greco zythos,
derivato dal nome nella stessa lingua della zea (spelta) e contemporaneamente
collegato alla radice verbale che indica il “vivere”: è facilmente spiegabile
come questo ultimo termine si amplierà a comprendere in genere molte birre
chiare a bassa gradazione, ricavate dallo sbriciolamento di pani
indipendentemente dal cereale usato, e sarà specifico, come abbiamo visto,
ancora nel mondo romano per distinguere la birra egiziana ed orientale rispetto
alla cerevisia celtica, “vino d’orzo”.
Almeno per l’età del Ferro europea non sembra invece dubitabile, sulla base
delle fonti, l’esistenza di una birra chiara ben fermentata, inebriante e ben
conservabile per la sua gradazione. Per quest’ultima possiamo confrontare i
termini celtici *bracia (ricostruito, sulla base di bracis, orzo distico o
scandella in Plin XVIII 62, della glossa “braces sunt unde fit cervesia”, di un
Marte della birra attestato per esempio nell’iscrizione Deo Marti Braciacae a
Bakewell - GB), bryton (nome della birra presso Liguri, Frigi e Traci secondo
Ateneo, X) ed embrekton (nome di bevanda usata dai Galati dell’Asia Minore
secondo Esichio). Il nome del cereale continua nel tardo latino brais, brais[i]um.
Dalla scandella, l’orzo distico descritto da Columella, evidentemente si
ricavava in Cisalpina e nella Gallia transalpina, oltre che nell’Europa
orientale, una birra, abbastanza forte e gassosa. Il termine diventerà poi
caratteristico per indicare il malto d’orzo (cfr. ant. irl. braich ed altri
analoghi). La radice i.e. *bhrac- “fermentare, marcire”, da cui i lat. marcēre
“marcire” e fraces “feccia dell’olio”, spiega bene il termine, cui si collegano
gli attuali termini tecnici nell’ambito della produzione della birra in
francese, brai e brasser/brasserie (da tardo lat. braciare). La variabilità
delle denominazioni su un arco territoriale così ampio non stupisce anche in
considerazione della probabile imprecisione delle fonti classiche per la scarsa
attenzione ai tecnicismi della birra, ma appare interessante che, a differenza
dei termini connessi alla base alica, questo nome della birra non sembra
collegabile direttamente ad una comune radice indoeuropea con significato
specifico ma se mai potrebbe essere formatosi sul piano linguistico e semantico
nella famiglia delle lingue celtiche, ligure compreso.
Simile al bryton ma diversa per il cereale prevalente utilizzato doveva essere
anche la celia / cerea, la birra classica dei Celtiberi secondo Plin XXII, Flor
II, Amm. Marc XXVI, Oros V. E’ evidentemente una birra chiara a base di frumento
(ex tritico nelle fonti): il frumento, messo a macerare e seccato dopo la
fermentazione, era ridotto in farina e poi si aggiungeva acqua. Appare falsa
l’etimologia citata dagli autori latini: celia a calefaciendo. Questa birra
bionda di frumento prende nome da una radice indoeuropea che origina i lat.
Ceres e cerealia; ma doveva essere diffusa anche in Cisalpina, come si desume
dal nome del lago Ceresius (C[e]lisius in Tab. Peut., con la stessa oscillazione
rotacistica citata da Plinio e peraltro ricorrente anche nelle varianti alica/arinca),
oggi Lago di Lugano (“biondo, chiaro” o “ribollente”?), e forse da toponimi del
tipo Ceres (TO) e Ceresole (TO). Un rapporto linguistico potrebbe legare la
celia e la parola gallica celicnon, secondo l’interpretazione più diffusa “sala
da banchetto” ma più verosimilmente “coppa per bere”, con una derivazione
aggettivale simile alla formazione di numerosi patronimici. Le considerazioni
fatte inducono a credere che probabilmente anche questo termine si origina
all’interno della famiglia linguistica del celtico continentale. Sul piano
tecnico, bisogna supporre per la celia una fermentazione abbastanza completa, ma
senza consistente riscaldamento o tostatura dei grani, con risultati forse
simili alla attuale famiglia delle birre chiare europee (Weizen o Weissbier).
Ben nota dalle attestazioni delle fonti (Posidonio in Ateneo, IV 151, Dioscoride,
II 110, Marcello Empirico, XVI 33) e meglio individuabile dalle precedenti è
invece la curmi/ korma: si tratta di una birra chiara a base esclusivamente di
orzo (secondo Dioscoride), probabilmente di norma addizionata con sostanze
zuccherine come miele (Posidonio) e rifermentata per ottenere una bevanda
notevolmente frizzante: tipica della Gallia, soprattutto Transalpina, collega il
suo nome all’i.e. *kerm- “bruciare, ribollire” (lat. cremor “mucillagine
d’orzo”; cremare "bruciare”; ital. cremore) e richiama i toponimi Cormons (GO),
Cormignano (BS), Cormano (MI). L’aggiunta di miele era originariamente collegata
alla necessità di aumentare la gradazione saccarometrica anche a fini
conservativi con una integrazione di zuccheri, secondo una tecnica tipica di
birre primitive, ma, per il carattere “galante” che sembra assumere la curmi in
età gallo-romana, l’aggiunta di miele era diventata funzionale per la
rifermentazione a freddo per aggiungere perlage alla bevanda. Sul piano
linguistico è stato addirittura ipotizzato un rapporto apofonico di curmi con
ceria e ceruisia (*kerm con lenizione di m?).
Un altro termine in uso per la birra, soprattutto in attestazioni tarde, era
camum (Ulp. Dig. XXXIII 6, 9; Edict. Dioclet. p. 28). Si indicava con questo
nome una birra di buona gradazione probabilmente non a base di orzo ma di altri
cereali (in particolare il miglio), verosimilmente con un termine tecnicamente
distinguibile anche da quello di bryton/embrecton. Nell’editto di Diocleziano
indica la seconda famiglia di birra europea a buona gradazione in alternativa
alla celtica ceruisia, che era presumibilmente rossa; anche per Ulpiano essa si
presenta in alternativa alla cervisia (“simili modo nec camum nec cerevisia
continebitur…”). La denominazione del camum era probabilmente originaria dei
Celti dell’Europa orientale e poi diffusa ad ovest, con parentele in ambito
indoeuropeo nel senso di “scaldare, bruciare, battere, forgiare” (cfr. gr. kαω,
“brucio”, i.e. *kaumi), ma non manca di collegamenti in Cisalpina come nel
gentilizio romano cisalpino Camonius, attestato epigraficamente nel Bolognese
(cfr. anche il toponimo Camugnano – BO ed il cognome novarese Camona), nei
toponimi di Camogno fraz. di Oggebbio (VB), Camodeia (Camoetium) oggi
Castellazzo (NO), Camo (Camulum) in Valle Belbo (CN), Camagna M.to (Camanea)
(AL) o addirittura forse nel celtico camulos “servo” ed epiteto frequente di
Marte. La troviamo in realtà attestata in Pannonia nel 448 d.C. alla corte di
Attila nella descrizione di Prisco in Giordane (IV 83), mentre due secoli prima
Giulio Africano (cest. 25) la riferisce bevuta dai Peoni di Macedonia. Il
termine camum è comunque importante perché è la base da cui si formano i termini
tardolatini camba, camma, cambarius, che figurano sia per i conventi che per gli
ambiti civili nella terminologia medievale soprattutto in Francia per indicare i
luoghi e gli artigiani della produzione della birra.
Ma il nome più importante per la designazione della birra d’orzo celtica è
naturalmente ceruisia/cervogia (PLIN XXII, COLUM X): si tratta verosimilmente di
una birra rossa o brunastra a base di orzo, tostato o soprattutto fumigato, non
mielata, variamente aromatizzata (Columella), tipica delle Gallie. Il colore
rosso/bruno è esplicito nel nome stesso, che deriva molto probabilmente
dall’i.e. *kerewos “cervo, rosso”, per la caratteristica del colore
rosso-brunastro del cervo europeo (ingl. red deer), in un uso per la definizione
del colore simile all’uso moderno in italiano di “camoscio” e a quello
ricostruito come ipotesi per camum. La denominazione sopravvive ancora oggi
nello spagn. cerveza e indica ancora nelle fonti romane la birra per eccellenza,
a gradazione elevata, definita anche nelle fonti antiche soprattutto greche
“vino d’orzo”. Questo nome, reso famoso dal già richiamato epigramma
dell’imperatore Giuliano l’Apostata, non deve favorire la confusione con
preparazioni tipiche del mondo greco, come il kykeion, bevanda sacra dei misteri
eleusini, composta da vino forte, orzo, miele e formaggio grattugiato, aromi
vari, tipica degli eroi omerici secondo Ateneo (I, 30b) o altre miscele pregiate
di vino con orzo, erbe aromatizzanti ed inebrianti, legate soprattutto ad usi
rituali nei culti di Demetra.