A tavola con i Romani
di Simona Carosi, Renata Curina, Marco Marchesini, Silvia Marvelli

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Il presente articolo è tratto da "Vivere in agro. Insediamenti di età romana fra Reno e Lavino", S. Carosi, R. Cunina, M. Marchesini, S. Marvelli - a cura di, Finale Emilia 2012, pp. 48-52, catalogo dell'omonima mostra

Scavi archeologici e fonti letterarie riescono a comporre un quadro piuttosto completo sulla cucina e sui modi della preparazione e consumazione del cibo al tempo dei Romani. Certo è che vi dovevano essere delle differenze tra le abitudini alimentari di chi era povero o ricco, di chi viveva in campagna e chi in città, ma possono essere delineati dei tratti comuni. Alla base dell’alimentazione, sin dai periodi più antichi, c’era la puls, una sorta di polenta, ottenuta con farina di farro cotta in acqua e sale a cui si potevano aggiungere fave (puls fabata), legumi, cavoli, cipolle, formaggio (puls caseata) ed anche alcuni pezzi di carne o pesce, fino ad arrivare ad un vero miscuglio che conteneva diversi ingredienti detto satura o satira, da cui la
nostra parola “satira”. Il pane vero e proprio non era diffuso prima del II secolo a.C., mentre la farina di farro poteva essere usata anche per la preparazione di focacce non lievitate. In ambito rurale non potevano mancare sulla tavola le olive, l’olio, le uova, il formaggio (che condito con aglio, sedano, ruta e coriandolo era chiamato moretum), le cipolle, le rape, i porri, le pere, le mele, i fichi, l’uva, la frutta secca, le sorbe. Aiutavano a superare la stagione invernale una scorta di radici, del pesce in salamoia, carne salata o affumicata, il miele. Il sale era necessario per la conservazione degli alimenti. Più raramente venivano consumati carne e pesce, che si iniziarono a trovare più diffusamente soprattutto a partire dalle guerre romane di conquista dalla metà del III secolo a.C. e soprattutto in città. Particolarmente apprezzata era la carne suina ed ovina, il pollame e la selvaggina, mentre i bovini erano impiegati quasi esclusivamente nel lavoro dei campi. Secondo Varrone (De re rustica, III, 5) la carne dei ghiri era considerata particolarmente gustosa. Nei banchetti più sontuosi si arrivava persino a quelle che noi oggi definiremmo vere e proprie “curiosità culinarie”, come la carne di fenicottero, di pavone o di struzzo, oppure pesci di dimensioni enormi o preparazioni scenografiche che dovevano far restare a bocca aperta i commensali. Ostriche, frutti di mare e crostacei aprivano i pasti più ricchi, nei quali non poteva mancare, come condimento principale di carne, pesce e verdure, il garum, una salsa ricavata dalla macerazione e filtraggio delle interiora di pesci nel sale. Tanto era apprezzato, che l’archeologia documenta l’uso di anfore appositamente destinate al commercio transmarino di questo prezioso condimento. La giornata di un romano era scandita da tre pasti: lo ientaculum si consumava di primo mattino, come la nostra colazione, il prandium a metà giornata e la cena. Lo ientaculum ed il prandium erano poco più che spuntini frettolosi. Molto più importante era la cena, che, se era di gala, poteva iniziare intorno alle due del pomeriggio e continuare fino a notte fonda. Negli ambienti rurali il luogo deputato alla consumazione dei pasti era spesso quello in cui si trovava il focolare, che nella bella stagione poteva essere acceso anche all’aperto. Si mangiava seduti prevalentemente su panche e sgabelli. Le abitazioni urbane invece prevedevano un ambiente destinato alla cottura dei cibi (culina) e l’uso (derivato dal contatto con il mondo greco) di mangiare sdraiati su triclinia, letti a tre posti, in legno o muratura, corredati da materassi, cuscini e coperte. La stanza della casa riservata alla cena, chiamata appunto triclinium, acquistò sempre maggiore importanza nelle dimore delle famiglie più ricche: alcune sale potevano ospitare una trentina di invitati, ma sono documentati anche banchetti con centinaia di persone.
Molto famosa è rimasta la cena di Trimalcione, descritta da Petronio nel “Satyricon”, un’occasione in cui i cuochi dovettero mostrare la propria abilità nella preparazione di vere sculture fatte col cibo. Alcuni piatti vengono descritti come dall’aspetto esageratamente fantasioso che ben rispecchia lo stile sfacciato di alcuni ricchi romani: fra questi una lepre con le ali, allestita in modo da raffigurare il cavallo alato Pegaso ed una scrofa di cinghiale ripiena di tordi vivi con tanto di cinghialini, fatti di pasta, attaccati alle mammelle.
Il banchetto più ricco prevedeva tre momenti distinti: la gustatio, che comprendeva antipasti pepati e tuzzicanti per risvegliare l’appetito. Venivano per lo più servite uova, zuc che, verdure, polli, ostriche. L’aperitivo era costituito da vini artificiali pre parati con assenzio, violette o petali di rose; maggiormente diffuso era il vino al miele, detto mulsum. La cena vera e propria, costituita da varie portate, (chiamate fercula) prevedeva zuppe a base di verdure, piatti di carne o pesce, e le secundae mensae, ossia i dolci e la frutta, fresca o secca. Si chiamavano secundae mensae perché in origine si portavano nuove tavole o, più semplicemente, si cambiava la tovaglia o i piatti usati in precedenza. L’espressione proverbiale ab ovo usque ad mala (“dall’uovo alle mele”) a significare “dall’inizio alla fine”, deriva proprio dall’uso di iniziare il pasto con le uova e terminarlo con la frutta.

Il vino era una bevanda importantissima per i Romani, sia perché molto amata tradizionalmente, sia perché di carattere sacro. Si conosceva sia il vino rosso, detto vinum atrum, sia quello bianco, il vinum candidum, ma, a differenza del nostro, il vino antico era torbido e acido e per questo motivo era necessario filtrarlo con un colino, il colum, e allungarlo con acqua calda o fredda (in inverno a volte veniva allungato anche con la neve) per ridurne l’alta gradazione alcolica. Il vino si faceva fermentare nei dolia, grandi contenitori di terracotta, da cui era poi travasato nelle anfore. Tra i tipi di vino più pregiati si annovera il Massico e il Falerno (dalla Campania), il Cecubo, il Volturno, l’Albano, il Sabino e quello di Sezze (dal Lazio) e i vini greci di Chios, Cos, Lesbo. I più scadenti erano il Veientano (tutti i vini provenienti dall’Etruria erano considerati scadenti), quello del Vaticano e quello di Marsiglia. I vini migliori erano riservati alla fine dei banchetti, al momento della commissatio, una sorta di dopocena dedicato alla goliardia e al divertimento. Vi erano vini aromatizzati con spezie, come il pepe (vinum piperatum), erbe, oli essenziali o legni odorosi. I vini invecchiati (ossia quelli che avevano passato l’estate successiva alla data di produzione) erano considerati molto pregiati e venivano ostentati sulle tavole dei ricchi. Esistevano poi anche surrogati del vino come la lora, ricavata dalla fermentazione delle vinacce con acqua, subito dopo la vendemmia e la posca, formata da acqua ed aceto. Questi surrogati erano spesso utilizzati come bevande da dare agli schiavi che lavoravano nelle grandi ville romane.