VIVERE IN AGRO
Insediamenti di età romana tra Reno e Lavino
mostra
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Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna, Regione Emilia-Romagna, Istituto per i Beni Artistici, Culturali e Naturali, Provincia di Bologna, Comune di Calderara di Reno, Museo Archeologico Ambientale di San Giovanni in Persiceto e Agenzia Territoriale per la Sostenibilità Alimentare, Agro-alimentare ed Energetica.
Si ringrazia Carisbo per il generoso contributo

Museo Archeologico Ambientale
(nuova sede espositiva di Calderara di Reno)
Centro Civico Spazio Reno
Via Roma 12

 VIVERE IN AGRO
Insediamenti di età romana tra Reno e Lavino

dal 15 dicembre 2012 (esposizione permanente)

aperta tutte le domeniche dalle ore 10 alle ore 12
ingresso libero

info 051.6871757

La mostra è dedicata al periodo romano e raccoglie numerose testimonianze archeologiche provenienti dal territorio calderarese. L’allestimento, inserito in uno scenario suggestivo che ricostruisce l’interno di una villa rustica, offre al visitatore la possibilità di fare un tuffo nel passato e di ritrovarsi in un contesto di vita quotidiana di età romana. Particolare attenzione nelle scelte espositive è posta all’organizzazione territoriale in età romana, alle tipologie abitative e alle tecniche edilizie, alle attività produttive e agli oggetti della vita quotidiana.

I reperti esposti sono rappresentativi di contesti archeologici emersi nel territorio comunale; in particolare vengono presentati numerosi materiali di uso domestico, anche di notevoli dimensioni, resti dell’antica pavimentazione, materiali utilizzati per la costruzione degli ambienti della villa rustica, rinvenuti durante le indagini archeologiche condotte presso le Cave Nord (Lippo di Calderara), dove lo scavo integrale dell’edificio rustico ha permesso di indagarne l’impianto principale e le numerose dotazioni insediative accessorie.
Ampio rilievo, in linea con la vocazione del Museo, viene riservato all’aspetto ambientale che, attraverso l’indagine del paesaggio vegetale antico, dell’agricoltura e dell’alimentazione, permette di comprendere il rapporto fra uomo e territorio nel corso dei secoli.
L’esposizione intende fornire un percorso di visita in grado di rendere facilmente fruibili, attraverso la visione di reperti, ricostruzioni, immagini e testi esplicativi, i dati scientifici scaturiti da indagini storiche, archeologiche e archeoambientali e guidare i visitatori alla riscoperta del proprio passato e del proprio territorio, delle sue trasformazioni e persistenze.
La sede di Calderara di Reno del Museo Archeologico Ambientale, allestita presso il Centro Civico Spazio Reno in via Roma 12, è aperta al pubblico con ingresso gratuito ogni domenica mattina dalle ore 10.00 alle ore 12.00


I Romani nelle pianure bolognesi

Il territorio corrispondente all’antica Emilia Romagna (Cispadana) fu romanizzato gradualmente, secondo un processo storico articolato in più tappe. Dopo la fondazione della colonia di Ariminum (Rimini, 268 a.C.) e la conquista della parte più orientale della regione, e dopo la fondazione delle colonie di Placentia e Cremona (Piacenza e Cremona, 218 a.C.), una volta conclusasi positivamente la seconda guerra punica, lo stato romano riprese con grande determinazione il progetto di annessione di tutto il territorio regionale (inizio del II secolo a.C.).
Il processo di romanizzazione vide la fondazione di numerose città (colonie), l’occupazione stabile delle campagne mediante massicci trasferimenti di popolazioni (colonizzazione), provenienti soprattutto dall’Italia centrale, ed infine il controllo e il coinvolgimento delle popolazioni autoctone.
La fondazione della colonia latina di Bononia (189 a.C.) fece parte integrante di tale programma, che fu attuato non appena ‘pacificate’ le popolazioni boiche dopo numerose campagne belliche. Pianificazione del capoluogo ed organizzazione della sua circoscrizione territoriale (compresa tra Samoggia e Idice) furono due facce della stessa medaglia: la costruzione delle infrastrutture e dei principali collegamenti viari (via Emilia, Via Flaminia detta Minore, vie dirette al Po) accompagnarono una graduale quanto capillare occupazione delle campagne attuatasi fin dalla prima età repubblicana.
L’insediamento romano raggiunse poi, durante i primi secoli dell’impero (fine del I secolo a.C. - II secolo d.C.), la massima espansione demografica ed economica. In questo periodo risultano prevalenti la piccola e la media proprietà, indice di una conduzione di tipo ‘familiare’ dei fondi. La prima crisi si manifestò tuttavia già durante la seconda metà del II secolo d.C. e più ancora nel III secolo, quando alcuni nuclei abitativi (ville e fattorie) cessarono di esistere ed altri furono costretti a mutare le fonti del proprio sostentamento. All’età tardoantica (fino al V-VI secolo d.C.) giunse comunque una buona parte di essi: si può pensare a grandi proprietà che si estesero a danno di alcune minori, le quali non sempre furono abbandonate, ma furono adibite a nuovi compiti economici (laboratori, ricoveri temporanei per l’allevamento ovicaprino ecc.). Il VI secolo d. C. segnò, infine, un periodo estremamente travagliato, non solo nella storia locale: alla instabile situazione politico-economica (guerra greco-gotica e riconquista bizantina) corrisposero fenomeni di grande dissesto idrogeologico (alluvioni ed impaludamento) e di crisi demografica.

Campagne geometrizzate: la centuriazione

Un semplice sguardo alle fotografie aeree o satellitari del paesaggio di alta pianura ad Ovest del Reno (Figg. 1-2) mostra una campagna profondamente ‘geometrizzata’ che, sia pure con interruzioni e discontinuità, riporta un reticolo centuriale visibile ancora per ampi ed evidenti settori. Poco dopo la fondazione della colonia latina di Bononia (189 a. C.) anche i territori corrispondenti all’attuale comune di Calderara, allora perfettamente inseriti nell’ambito bononiense, furono suddivisi secondo i dettami della principale disciplina agrimensoria romana, la centuriazione. Essa rappresentava a quel tempo il principale sistema di parcellazione agraria, sperimentato ed abbondantemente applicato soprattutto nella regione cispadana, l’antica Aemilia (Fig. 3). Si trattò per lo più di un reticolo regolare formato da maglie quadrate di circa m 710 (pari a 20 actus; 1 actus = m 35,5 circa) per lato e materializzato sul terreno dai cardini (con orientamento circa nord-sud) e dai decumani (con orientamento circa est-ovest), i quali coincidevano di volta in volta con strade di collegamento e con fossati. Una centuria di questo tipo corrispondeva a 200 iugeri (quasi 50 ettari), essendo lo iugero (iugerum) un’ unità di superficie a sua volta equivalente a 0,25 dei nostri ettari (Fig. 4).
La centuriazione non era formata soltanto dai limites maggiori (appunto i cardini ed i decumani), ma anche da una fitta serie di suddivisioni interne alle singole centurie: fossati colturali e canali di scolo, oltre alle ‘capezzagne’, davano supporto materiale a confini di varia natura, assieme alle piantate di alberi (olmo) e viti maritate. Dunque un vero e proprio sistema cui era affidato il compito di assicurare i collegamenti viari tra le varie zone del territorio, il drenaggio e l’irrigazione delle campagne, l’ossatura catastale ed i confini proprietari. Un organismo complesso che solo un apparato statale altamente efficiente poteva promuovere e, soprattutto, mantenere attraverso l’assidua cura prestata dalle popolazioni locali.
Gli studiosi ritengono che le centuriazioni diffuse in tutta la regione facessero parte di alcuni grandi ‘blocchi’ cadenzati secondo una precisa programmazione di ampio respiro. La centuriazione bolognese, di cui fece parte anche tutto il quadrante compreso tra Reno e Samoggia, sembra a sua volta appartenere ad un insieme che si salda verso ovest al blocco emiliano esteso fino all’Enza, e che diverge, verso est, dal blocco delle centuriazioni comprese tra Idice e Ronco, nel Forlivese.
Quali furono i tempi di suddivisione e di occupazione dell’agro dell’antica Bononia (Fig. 5), ed in particolare del settore compreso tra Reno e Lavino?
Si ammette generalmente che, fatta salva la realizzazione verosimilmente simultanea di alcune delle principali infrastrutture, le campagne fossero occupate in modo progressivo, ma con accelerazioni avvenute in determinati momenti storici. Se la più antica colonizzazione pare abbia interessato la porzione di pianura più vicina alla città, sembra che i settori collocati ormai decisamente oltre la fascia suburbana siano stati più densamente abitati solo a partire dalla fine del II secolo a.C., e poi ancora a ridosso dell’inizio dell’età imperiale. Le ricerche archeologiche condotte sia a Budrio, sia San Giovanni in Persicieto, sia nell’area di Calderara, hanno infatti mostrato che i materiali (soprattutto ceramici) più antichi si datano solo dall’avanzato II secolo a.C., cioè un’epoca ormai decisamente posteriore rispetto alla prima colonizzazione di Bononia. Bisogna pensare quindi alle successive assegnazioni di terre, operazioni nelle quali ebbero un grandissimo peso le politiche triumvirali della seconda metà del I secolo a.C., con le elargizioni ai veterani di Marco Antonio, prima, e di Ottaviano Augusto in seguito.


L’ impianto rustico di Cave Nord a Calderara di Reno

Uno scavo di tutela, effettuato tra il 1985 ed il 1988, resosi necessario a seguito di affioramenti di materiale archeologico, ha permesso di mettere in luce un impianto rustico di epoca romana, nell’area di Cave Nord, a circa 2,5 km a sud-est di Calderara. Lo scavo dell’edificio, le cui strutture presentavano uno stato di conservazione precario sin dall’antichità, ha consentito tuttavia una inconsueta possibilità di conoscere le sequenze evolutive di un impianto di campagna che ha svolto le sue funzioni, abitative ed produttive, dagli inizi del I sec.a.C. fino alla prima metà del VI sec.a.C. La prima fase, da datarsi alla tarda età repubblicana, era caratterizzata dalla presenza di strutture in terra e legno, che dovevano costituire i resti dell’abitazione, posta all’interno di un fondo agricolo, di una famiglia di coloni; un pozzo di captazione idrica era parte integrante del piccolo insediamento. Una seconda fase, collocabile all’inizio dell’età imperiale, vide la ristrutturazione del precedente complesso e l’erezione di una nuova abitazione di superficie totale attorno ai 135 mq e suddivisa in cirque vani, articolati in modo da garantire una ottimale esposizione dell’impianto e gravitanti con le aperture principali verso sud, dove si apriva una piccola corte. Verso ovest rispetto la corte era un vano (C) da considerare come un atrio di accesso e disimpegno, viste le varie aperture che garantivano il collegamento con gli spazi esterni ed interni; lungo la parete ovest vi era un ampio varco affiancato da un ambiente con tettoia, nel cui sterrato pavimentale erano state ricavate due vaschette comunicanti foderate di laterizi, per lo svolgimento di qualche pratica lavorativa, mentre, in posizione più interna, era collocata una macina per cereali. La parte più orientale del complesso era occupata da un vano (E) a destinazione abitativa e di soggiorno, a cui si accedeva tramite un portone a due ante; al centro vi era un focolare, mentre nell’angolo est era probabilmente una scala lignea che consentiva di salire su un piano soppalcato di servizio. Un vano più interno (D) dotato di pavimentazione ad esagonette fittili a due colori è stato interpretato come soggiorno oppure cubiculum, ossia la stanza da letto del capofamiglia. Verso ovest era un vano (A) che presentava al centro un grande focolare; la presenza, lungo le pareti, di una serie di ollette, alcune delle quali con all’interno i resti carbonizzati di fave ed orzo e di anfore, infisse nel terreno, rendono certi che l’utilizzo della stanza fosse per cucina e dispensa. Il vano esposto più a nord (B) conservava al suo interno due vaschette rivestite di cocciopesto e numerosi contenitori per derrate alimentari, tra cui due gradi dolii ed anfore: si trattava evidentemente di un magazzino/cantina, al quale si accedeva anche dall’esterno, tramite un piccolo vestibolo e una porta, posti sul retro della casa. Fuori dall’edificio vero e proprio, una serie di apprestamenti completavano le dotazioni più propriamente domestiche: sul lato est doveva estendersi un portico a balconata e, nei pressi della corte esterna, un pozzo a camicia laterizia, in sostituzione del più antico pozzo di epoca repubblicana; sul lato ovest, fuori dalla cucina, vi era una latrina con vaschetta e pavimentazione in laterizi; poco più oltre, forse un torchio a vite verticale per la spremitura dell’uva, di cui restava parte del basamento. Varie banchine e rimesse a cella dovevano servire per ricoverare gli attrezzi da lavoro. Tra il II ed il IV sec.d.C. alcune modifiche architettoniche ci testimoniano di sostanziali trasformazioni nelle funzioni dell’edificio, che vedrà, nella generale crisi economica, il potenziamento di alcune attività artigianali, a scapito di quelle più propriamente agricole finora esercitate: vengono distrutti vari contenitori per derrate alimentari, così come le vaschette per lavorazioni interne e chiusi alcuni passaggi perso l’esterno; la drastica rarefazione del numero delle anfore si accompagna ad un progressivo accumulo di rifiuti, detriti e residui di combustione, soprattutto all’interno della cucina, destinata ormai già ad attività di tipo fusorio. L’uso abitativo dei vani posti lungo il versante orientale decade completamente tra il V ed il VI sec., quando l’intero complesso diviene ad uso esclusivo di una officina fusoria di fabbri e vetrai. L’impianto originario a vocazione rustica appare quindi completamente disarticolato architettonicamente: i muri interni vengono abbattuti nell’ala più ad ovest, mentre i restanti vani abitativi sono interessati da progressivi crolli.

Il Contesto e le attività produttive

L’edificio di Cave Nord a Calderara consente di gettare luce in modo completo sul modo di vita di una famiglia di contadini che, risiedendo su un fondo di proprietà, nella prima età imperiale, gestiscono una piccola fattoria che produceva per sé i principali mezzi di sostentamento ed, in parte, poteva destinarli al commercio. L’autosufficienza dell’impianto rustico è altresì documentato dalla presenza di un piccolo sepolcreto prediale, posto non distante dalle strutture. La strada glareata che si snodava verso nord-est, inserita perfettamente alla rete centuriale, prevedeva un allargamento della sede stradale in corrispondenza dell’edificio. Questo espediente fu usato probabilmente al fine di creare una zona carico-scarico di materiali e di manovra per i carri, in relazione alle attività economiche che vi si svolgevano, quali lo smercio di prodotti agricoli (oppure la distribuzione di manufatti artigianali nelle fasi più tarde) lasciando aperta la possibilità, come detto, anche di transazioni commerciali.
Insediamenti rustici della campagna bolognese, come questo di Calderara, fondavano la propria attività soprattutto sullo sfruttamento agricolo, in particolare sulla produzione cerealicola, come i grandi doli ed il vasellame da conserva, nonché le macine, consentono di affermare. Le tracce di un torchio ed il rinvenimento di anfore vinarie permettono di ipotizzare la produzione ed il consumo di vino. Successivamente, la crisi economica ed i mutamenti nell’organizzazione e nello sfruttamento del territorio a partire dalla fine del II sec. d.C. portarono ad un cambiamento delle attività, che, qui nell’impianto di Cave Nord, da agricole divennero sostanzialmente manifatturiere. Questo ebbe come conseguenza una notevole variazione nella distribuzione interna delle strutture e negli usi dei vani dell’edificio nelle sue ultime fasi di vita; sono attestate intense attività di combustione ottenute tramite numerosi fuochi liberi sui piani pavimentali, presso cui fondi di crogioli, fritte e scarti di lavorazione, quattro pani di vetro blu destinati alla fusione, alla soffiatura o alla realizzazione di tessere musive, attestano che attività prevalente è diventata quella della produzione del vetro. Le forme degli oggetti di vetro, trovati in numero consistente, sono quelle più comuni: soprattutto bicchieri, bottiglie, coppe, piatti e balsamari, mentre mancano pezzi di pregio estetico od ornamentale. Con il tempo decadde dunque la funzione abitativa dell’edificio, destinato via via soltanto ad una frequentazione specializzata e forse a carattere stagionale. La situazione va spiegata probabilmente con un declino generalizzato degli insediamenti rurali più autonomi ed autosufficienti e la conseguente affermazione di differenti gerarchie socio-economiche. Accadeva così che una villa “rustica” accentrando in sé vasti fondi, garantisse il servizio abitativo anche per i lavoratori subalterni impiegati ad ampio raggio sul territorio, sia per attività artigianali, sia per quelle più tradizionalmente agricole.


La vita quotidiana. Gli oggetti d’uso

La vita quotidiana in ambiente rurale doveva essere scandito, più di oggi, dai ritmi della natura, stagionali e giornalieri. Se l’archeologia non riesce a restituire l’immagine dei gesti che accompagnavano la giornata di una famiglia di coloni romani, lo studio dei materiali consente pur tuttavia di ricostruire le principali abitudini che scandivano lo scorrere del tempo.
La quantità maggiore di oggetti che è possibile recuperare in una abitazione rurale è certamente il vasellame, legato alle necessità domestiche della cucina, del consumo o immagazzinamento di derrate alimentari o bevande. Negli ambienti destinati al focolare o alla conservazione di cibo, si potevano trovare olle, pentole, tegami, mortai e ciotole in “impasto grezzo”, le cui forme attraversano in modo generalizzato vari secoli; i dolii, grandi contenitori che venivano parzialmente infossati nel piano sterrato, consentivano di accumulare e conservare notevoli quantità di cereali e leguminose; l’uso di restaurarli in antico con grappe in piombo sulle pareti è una testimonianza del valore di questo oggetti nell’ambito dell’economia domestica. Recipienti tipo canestri e cesti di vimini dovevano essere usati per conservare frutta. Le anfore, tipica forma da trasporto, attesta il consumo del vino e dell’olio. Per quanto riguarda il vasellame da tavola, la “ceramica comune depurata” (argilla rosa-arancio con pareti di medio-piccolo spessore) era utilizzata prevalentemente per olle, brocche, bottiglie, bacili, ossia contenitori per liquidi, mentre la ceramica più “fine da mensa” era rappresentata da coppe, coppette, piatti, in “terra sigillata” (argilla molto depurata con superficie rossa brillante, il cui nome ricorda i sigilla, ossia degli elementi decorativi a rilievo) di produzione aretina o nord-italica, fino alla prima età imperiale, oppure in “ceramica medioadriatica” (con caratteristica decorazione suddipinta in bruno) durante la media età imperiale, fino ad arrivare alle più tarde produzioni italiche che sfiorano il VI sec.d.C. Bicchieri, boccalini, ollette, fino al II sec.d.C. erano prevalentemente in “ceramica a pareti sottili”, che come dice il nome è una particolare classe di ceramica da mensa, le cui forme sono caratterizzate da uno spessore molto ridotto delle pareti (non più di 5 mm). Tra gli oggetti in vetro spiccava la quantità di coppe e bicchieri, ma potevano essere presenti anche bottiglie, brocche e balsamari, per contenere oli profumati. Nell’edificio di Cave Nord dalla media età imperiale è attestata una vera e propria manifattura vetraria.
Dell’ instrumentum domesticum vero e proprio fanno parte le fusaiole ed i pesi da telaio, che testimoniano l’uso della filatura e della tessitura all’interno delle mura domestiche, alcuni aghi da cucito, dei pesetti in bronzo, tra cui quello a forma di anfora dell’edificio di Cave Nord poteva essere usato per una piccola bilancia per misure di precisione. Non potevano mancare elementi di ornamento o da toletta, come un anelli da dito, pinzette ed uno specillo o ligula. L’illuminazione, all’interno delle abitazioni, era garantita dalle lucerne: realizzate in terracotta ed alimentate grazie ad uno stoppino imbevuto di olio da combustione, potevano essere sistemate, soprattutto in case più ricche, appese a candelabri bronzei.
Le monete, all’interno di impianti di tipo rustico, rappresentano per lo più perdite occasionali, ma sono spesso importanti per definire la vitalità economica all’interno del contesto, oltre che per datare più esattamente strati e strutture. Dall’edificio di Cave Nord provengono degli assi e dupondi (in oricalco, lega di rame e …), databili tra I e II sec.d.C., un follis e dei nummi, databili all’epoca del tardo Impero (IV-VI sec. d.C.). La prevalenza di monete di bronzo ben si spiega, in area rurale, per acquisti di derrate e beni di uso comune, mentre la mancanza di monete nel III sec.d.C., momento in cui l’attività artigianale soppianta quella abitativa ed agricola, è stata attribuita forse ad un periodo di crisi economica, durante il quale era praticato lo scambio in natura.
Una delle monete provenienti da Cave Nord, un asse di Agrippa (27-12 a.C.) era collocato all’interno di una tomba ed è stato interpretato come “obolo di Caronte”, ossia una moneta che permetteva il pagamento del pedaggio al nocchiero degli Inferi, per guadagnarsi così il trapasso nell’Aldilà.

A tavola con i Romani

Scavi archeologici e fonti letterarie riescono a comporre un quadro piuttosto completo sulla cucina e sui modi della preparazione e consumazione del cibo al tempo dei Romani. Certo è che vi dovevano essere delle differenze tra le abitudini alimentari di chi era povero oppure ricco, di chi viveva in campagna e chi in città, ma possono essere delineati dei tratti comuni. Alla base dell’alimentazione, sin dai periodi più antichi, vi era la puls, una sorta di polenta, ottenuta con farina di farro cotta in acqua e sale, a cui si potevano aggiungere fave (puls fabata), legumi, cavoli, cipolle, formaggio (puls caseata) ed anche alcuni pezzi di carne o pesce, fino ad arrivare ad un vero miscuglio che conteneva diversi ingredienti detto satura o satira, da cui la nostra parola “satira”.
Il pane vero e proprio non era diffuso prima del II sec.a.C., mentre la farina di farro poteva essere usata anche per la preparazione di focacce non lievitate. In ambito rurale non potevano mancare sulla tavola, oltre ai cereali, le olive, l’olio, le uova, il formaggio (che condito con aglio, sedano, ruta e coriandolo era chiamato moretum), le cipolle, le rape, i porri, le pere, le mele, i fichi, l’uva, la frutta secca, le sorbe; aiutava a superare la stagione invernale una scorta di radici, del pesce in salamoia, carne salata o affumicata, il miele; il sale era necessario per la conservazione degli alimenti. Più raramente venivano consumati carne e pesce, che si iniziarono a trovare più diffusamente soprattutto a partire dalle guerre di conquista dalla metà del III sec.a.C. e soprattutto in città. Particolarmente apprezzata era la carne suina ed ovina, il pollame e la selvaggina, mentre i bovini erano impiegati quasi esclusivamente nel lavoro dei campi. Secondo Varrone (De re rustica, III, 5) la carne dei ghiri era considerata particolarmente gustosa. Nei banchetti più sontuosi, si arrivava persino a quelle che noi oggi definiremmo vere e proprie“curiosità culinarie”, come la carne di fenicottero, pavone o di struzzo, oppure pesci di dimensioni enormi o preparazioni scenografiche che dovevano far restare a bocca aperta i commensali. Ostriche, frutti di mare e crostacei aprivano i pasti più ricchi, nei quali non poteva mancare, come condimento principe di carne, pesce e verdure, il garum, una salsa ricavata dalla macerazione e filtraggio delle interiora di pesci nel sale. Tanto era apprezzato, che l’archeologia documenta l’uso di anfore appositamente destinate al commercio transmarino di questo prezioso condimento.
La giornata di un romano era scandita da tre pasti: lo ientaculum si consumava di primo mattino, come la nostra colazione, il prandium a metà giornata e la cena. Lo ientaculum ed il prandium erano poco più che spuntini frettolosi. Molto più importante era la cena, che, se era di gala, poteva iniziare intorno alle due del pomeriggio e continuare fino a notte fonda. Negli ambienti rurali il luogo deputato alla consumazione dei pasti era spesso quello in cui era il focolare, che nella bella stagione poteva accendersi all’aperto e si mangiava seduti prevalentemente su panche e sgabelli. Le abitazioni urbane invece prevedevano un ambiente destinato alla cottura dei cibi (culina) e l’uso (derivato dal contatto con il mondo greco) di mangiare sdraiati su triclinia, letti a tre posti, in legno o muratura, corredati da materassi, cuscini e coperte. La stanza della casa riservata alla cena, chiamata appunto triclinium, acquistò sempre maggiore importanza nelle dimore delle famiglie più ricche: alcune sale potevano ospitare una trentina di invitati, ma sappiamo anche di banchetti con centinaia di persone.
Molto famosa è rimasta la cena di Trimalcione, descritta da Petronio nel "Satyricon", un’occasione in cui i cuochi dovettero mostrare la propria abilità nella preparazione di vere e proprie sculture fatte col cibo. Alcuni piatti vengono descritti come dall'aspetto esageratamente fantasioso che ben rispecchia lo stile sfacciato di alcuni ricchi romani; fra questi una lepre con le ali, allestita in modo da raffigurare il cavallo alato Pegaso ed una scrofa di cinghiale ripiena di tordi vivi con tanto di cinghialini, fatti di pasta, attaccati alle mammelle.
Il banchetto più ricco prevedeva tre momenti distinti: la gustatio, che comprendeva antipasti pepati e stuzzicanti per risvegliare l'appetito. Venivano per lo più servite uova, zuc¬che, verdure, polli, ostriche. L'aperitivo era costituito da vini artificiali pre¬parati con assenzio, violette o petali di rose, ma il più delle volte si trattava di vino al miele, detto mulsum; la cena vera e propria, costituita da varie portate, (chiamate fercula) come zuppe a base di verdure, piatti di carne o pesce, e le secundae mensae, ossia i dolci e la frutta, fresca o secca: si chiamava così perché in origine si portavano nuove tavole o, più semplicemente, si cambiava la tovaglia o i piatti usati in precedenza. L’espressione proverbiale “ab ovo usque ad mala” (“dall’uovo alle mele”) a significare “dall’inizio alla fine”, deriva proprio dall’uso di iniziare il pasto con le uova e terminarlo con la frutta.

Il vino

Il vino era una bevanda importantissima per i Romani, sia perché molto amata tradizionalmente, sia perché di carattere sacro. Si conosceva sia il vino rosso, detto vinum atrum, sia quello bianco, il vinum candidum, ma, a differenza del nostro, il vino antico era torbido ed acido e per questo motivo era necessario filtrarlo con un passino, il colum e allungarlo con acqua calda o fredda, (in inverno a volte anche con la neve) per ridurne l’alta gradazione alcolica. Il vino si faceva fermentare nei dolia, grandi contenitori di terracotta, da cui era poi travasato nelle anfore. Tra i tipi di vino più pregiati erano: il Massico ed il Falerno (dalla Campania), il Cecubo, il Volturno, l’Albano, il Sabino e quello di Sezze (dal Lazio) ed i vini greci di Chios, Cos, Lesbo; i più scadenti erano il Veientano (tutti i vini provenienti dall’Etruria erano considerati scadenti), quello del Vaticano e quello di Marsiglia. I vini migliori erano riservati alla fine dei banchetti, al momento della commissatio, una sorta di dopocena, dedicato alla goliardia ed al divertimento. Vi erano vini aromatizzati con spezie, come il pepe (vinum piperatum), erbe, oli essenziali o legni odorosi. I vini invecchiati (ossia quelli che avevano passato l’estate successiva alla data di produzione) erano considerati molto pregiati e venivano ostentati sulle tavole dei ricchi. Esistevano poi anche surrogati del vino come la lora, ricavata dalla fermentazione delle vinacce con acqua, subito dopo la vendemmia e la posca, formata da acqua ed aceto. Questi surrogati erano spesso utilizzati come bevande da dare agli schiavi che lavoravano nelle grandi ville schiavistiche romane.


PAESAGGIO VEGETALE, AMBIENTE E AGRICOLTURA

Ricostruire il paesaggio antico come entità dinamica e viva nel tempo significa ricomporre la storia delle opere dell’uomo nel loro contesto ambientale, sia naturale sia antropico, evidenziando le interazioni che si sono interfacciate nel corso del tempo. Il paesaggio diventa dunque un vero e proprio contenitore di memoria individuale e al tempo stesso collettiva, in quanto reca le tracce della storia delle sue trasformazioni. Le indagini archeobotaniche condotte in siti archeologici della pianura bolognese hanno consentito di focalizzare l’evoluzione del paesaggio vegetale e dell’ambiente in età romana nell’area compresa fra Reno e Lavino. Gli studi effettuati, in accordo con le fonti storico-letterarie, confermano che a partire dal II sec a.C. avvenne una sistematica e progressiva colonizzazione dei territori della pianura bolognese (fondazione di Bononia nel 189 a.C.) in un’area già fortemente deforestata e antropizzata, dove si sviluppò un’attività agricola più intensiva e diversificata rispetto al periodo etrusco-celtico.
Il paesaggio bolognese in età repubblicana è caratterizzato da un nuovo assetto territoriale, funzionale e ben organizzato, con la presenza di numerosi insediamenti fra cui il rustico Cave Nord, che si inserisce in un territorio fortemente antropizzato che si caratterizza per la coltivazione di diversi cereali, piante tessili, filari di alberi da frutta, vigneti, aree lasciate a prato/pascolo o incolte per la rotazione delle colture, intervallate da siepi e sentieri che separavano le proprietà, canali, fossati, stagni/maceri e piccoli invasi. Polibio (II sec. a.C.) descrive l’abbondante fertilità della Pianura Padana con particolare riferimento alla produzione dei cereali e del vino ed anche all’enorme produzione di ghiande, che permetteva di allevare tanti maiali da rifornire il mercato italiano. Il querceto planiziario, di cui qualche lembo a farnia veniva mantenuto vicino agli edifici rustici, era presente soprattutto sullo sfondo al paesaggio agricolo e sulle pendici collinari/montani si distinguevano boschi di Pini/Pinus e di Abete bianco/Abies alba.
Con il passaggio dall’età repubblicana a quella imperiale si ha una progressiva colonizzazione del territorio, favorita anche da un miglioramento climatico (presenza di Leccio/Quercus cf. ilex e Olivo/Olea europaea e regresso delle conifere). I Saserna nel loro trattato di agricoltura attestano che le migliori condizioni climatiche/ambientali permettevano la crescita di alcune specie di vite e di olivo fino ad allora non coltivate. La prima età imperiale (I-II sec. d.C.) si caratterizzata per una definitiva occupazione del territorio, nel quale veniva praticata un’agricoltura specializzata e di tipo intensivo, che necessitava di edifici rurali in cui trasformare (trebbiatura e vinificazione) e immagazzinare i prodotti, oltre a ospitare gli addetti al lavoro dei campi. La villa rustica di San Vitalino è cronologicamente riferibili a questo periodo. Numerosissimi sono i reperti vegetali rinvenuti nella villa di San Vitalino che attestano l’elevato grado di antropizzazione del territorio: sono documentate coltivazioni di vari cereali (grano tenero/Triticum aestivum, spelta/T. spelta, farro/T. dicoccon e farro piccolo/T. monococcum, orzo/Hordeum vulgare subsp. vulgare, panico/Panicum miliaceum e pabbio/Setaria italica), leguminose (fava/Vicia faba), piante tessili (canapa/Cannabis sativa e lino/Linum usitatiisimum) e ortive (cicoria/Cichorium intybus, fragola/Fragaria vesca, carota/Daucus carota, pastinaca/Pastinaca sativa, porcellana/Portulaca oleracea), diversi alberi da frutta (gelso nero/Morus nigra e gelso bianco/Morus alba, melo/Malus domestica, olivo/Olea europaea, pero/Pyrus communis, pruni/Prunus, pesco/Prunus persica, noce/Juglans regia, sorbo/Sorbus, pino da pinoli/Pinus pinea, ecc.) e Vite/Vitis vinifera subsp. vinifera, spesso “maritata”, secondo numerosi autori latini (Plinio, Columella, Varrone), ad alberi quali Olmo, Acero, Carpino, Corniolo, Tiglio e Orniello, orginando il cosiddetto arbustum gallicum, tipica forma di allevamento della vite che caratterizzava tutto il territorio centuriato. Gli spazi agricoli all’interno delle centurie appaiono suddivisi da siepi arbustate e alberi di confine (Querce caducifoglie/Quercus caducif., Olmo/Ulmus, Acero/Acer, Frassino/Fraxinus, Corniolo/Cornus mas, Biancospino/Crataegus, Frangola/Frangula alnus, ecc.) alternati a spazi lasciati a prato/pascolo, forse con aree a maggese e terreni incolti. Sono documentate anche alcune specie ornamentali fra cui Bosso/Buxus cf. sempervirens, Platano/Platanus e Tasso/Taxus baccata. Il bosco (tasso di afforestamento inferiore al 20%) rimane sullo sfondo del paesaggio centuriato. Lungo le rive di canali, stagni e fossati vegetavano Ontani/Alnus, Salici/Salix e Pioppi/Populus (igrofite = 18%) alternati a praterie umide in cui dominavano Cyperaceae con diversi tipi di Carex, Cladium mariscus, Iris pseudacorus, Sanguisorba officinalis, tipica dei prati paludosi ed oggi scomparsa quasi totalmente dalla pianura padana.
Nella seconda età imperiale iniziano a comparire i primi segnali di un regresso dell’organizzazione territoriale dovuto a una progressiva crisi politico-economica che favorisce il diffondersi del latifondo con l’abbandono degli insediamenti fra cui anche la villa rustica di San Vitalino. Il regresso si verificò a mosaico: in alcuni siti le indagini polliniche documentano il perdurare dell’attività antropica anche dopo l’abbandono degli edifici; in altri, il rallentare della frequentazione/attività è invece molto più evidente con segni soprattutto di regresso dell’organizzazione agricola e contrazione delle coltivazioni di cereali e vite. Il progressivo mancato governo delle acque determina inoltre un crescente allagamento dei siti e una trasformazione dei terreni agricoli in aree paludose. Testimonianza di questo nuovo assetto territoriale è l’aumento esponenziale delle zone umide, a San Vitalino si verifica un progressivo impaludamento del sito, come è indicato dalle specie igrofile, soprattutto erbacee, che arrivano al 52,7% e sono rappresentate da varie Cyperaceae con carice/Carex, falasco/Cladium mariscus, rincospora chiara/Rynchospora alba, giunco nero/Schoenus accompagnate da cannuccia di palude/Phragmites cf. australis, salterella comune/Lytrum salicaria, ninfea gialla/Nymphaea lutea, vari coltellacci (Sparganium emersum, Sparganium erectum), morso di rana/Hydrocharis morsus-ranae, millefoglio d’acqua/Myriophyllum spicatum, ecc. Anche il bosco caducifoglio con Querce caducif./Quercus caducif. e, in particolare, Farnia/Quercus cf. robur, Acero/Acer campestre, Frassino comune/Fraxinus excelsior, Carpini (Carpinus betulus, Ostrya carpinifolia) Nocciolo/Corylus avellana, Corniolo/Cornus mas, Ranno/Rhamnus, iniziano ad espandersi occupando spazi lasciati incolti e privi di governo da parte dell’uomo.
Nel Tardo antico la forte crisi politico-economica che interessa ormai tutto l’occidente determina una radicale trasformazione del paesaggio agricolo: si espandono ulteriormente le aree umide e il bosco, a San Vitalino dopo una forte alluvione il luogo dove sorgeva la villa è occupato da prati umidi con qualche area stagnale, mentre boschi igrofili a ontano nero e il querceto mesoigrofilo a farnia avanzano verso il sito. Le tracce antropiche si affievoliscono. Il tutto è aggravato da un progressivo peggioramento climatico caratterizzato da un abbassamento delle temperature e da un aumento della piovosità.

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MARCHESINI MARVELLI Agri centuriati.

Promosso da:

Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia Romagna, Regione Emilia-Romagna, Istituto per i Beni Artistici, Culturali e Naturali, Provincia di Bologna, Comune di Calderara di Reno, Museo Archeologico Ambientale di San Giovanni in Persiceto e Agenzia Territoriale per la Sostenibilità Alimentare, Agro-alimentare ed Energetica.
Si ringrazia Carisbo per il generoso contributo

Città: Calderara di Reno
Quando: da sabato 15 dicembre 2012
Orari: domenica 10-12
Luogo: Museo Archeologico Ambientale (nuova sede espositiva di Calderara di Reno)
Centro Civico Spazio Reno
Indirizzo: Via Roma 12
Provincia: Bologna
Regione: Emilia-Romagna
Telefono: 051.6871757
Info: Segreteria del Museo Archeologico Ambientale di San Giovanni in Persiceto
Tel. 051-6871757 - Fax 051-823305
e-mail: maa@caa.it 
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editing Carla Conti