Comune di Lugo e Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna in collaborazione con Comitato per lo studio e la tutela dei beni storici di Lugo
LUGO AI TEMPI DEL COLERA
Testimonianze archeologiche e fonti documentarie sull'epidemia del 1855
dal 12 aprile 2014 al 30 settembre 2015
Manica Lunga dell'ex Convento del Carmine
Piazza Trisi n. 4 a
LUGO (RA)
visitabile dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 12
Ingresso libero
Per informazioni o per prenotare visite guidate contattare il Comitato per lo studio e la tutela dei beni storici di Lugo (comitatoarcheolugo@libero.it) oppure l'URP del Comune 0545 38488 oppure l'Ufficio musei 0545 38561
La mostra "Lugo ai tempi del colera" è imperniata su un momento ben preciso
della storia della città, quello della diffusione dell’epidemia che nel 1855
devastò la Legazione apostolica della Romagna, proprio alla vigilia della
dissoluzione dello Stato pontificio e dell’annessione dei suoi territori al
Regno di Sardegna. Promossa dal Comune di Lugo e dalla Soprintendenza per
i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna, in collaborazione con Comitato per lo
studio e la tutela dei beni storici di Lugo, l'esposizione curata dalle archeologhe della
Soprintendenza, Chiara Guarnieri e Claudia Tempesta, e da Antonio Curzi del
Comune di Lugo, propone un’ampia scelta di reperti archeologici recuperati nella Rocca
Estense e di fonti documentarie conservate nell’Archivio Comunale, corredata da
un apparato didattico e illustrativo che consente di ricostruire uno spaccato
della storia di Lugo alla metà del XIX secolo e riviverne le vicende.
I materiali esposti, quasi tutti ottocenteschi, provengono dallo scavo di un condotto
utilizzato come scarico delle prigioni ospitate nel torrione nord-occidentale
della Rocca, il cosiddetto “mastio di Uguccione”. Oltre a questi, è presente
anche una piccola selezione di materiali dei secoli precedenti (XVII-XVIII),
quali pentole da
fuoco in ceramica invetriata e piatti in smaltata
bianca o azzurra, tipo “Senigallia”.
Si tratta di oggetti usati dai
detenuti e gettati nello scarico in occasione dell’epidemia di colera del 1855,
per lo più brocche, catini, ciotole, piatti in ceramica ingobbiata ed
invetriata, talvolta dipinti con motivi geometrici e floreali, ma anche altri
tipi di recipienti, come pitali, fiasche, pentole e tegami, o altri oggetti
d'uso comune, come le pedine da gioco. L’importanza di tutto questo materiale
non è solo nell’ampiezza e omogeneità del contesto (sono stati recuperati
centinaia di pezzi, di cui solo una parte in mostra), ma nella sua precisa
riferibilità a un determinato momento storico. L’elemento di maggiore interesse
resta però il fatto che diversi manufatti presentano graffiti con i nomi dei
carcerati (e in alcuni casi la loro provenienza), le date della loro detenzione
(dal 1835 al 1854) o segni devozionali come le croci: queste incisioni, oltre ad
avere una grande efficacia comunicativa, rappresentano il legame con i documenti
esposti che in qualche caso hanno permesso di ricostruire le vicende personali e
giudiziarie di alcuni detenuti.
I materiali documentari (provenienti dall’Archivio Comunale di Lugo), oltre che
di documenti più strettamente legati ai singoli detenuti, sono costituiti da
estratti del carteggio amministrativo del Comune di Lugo riferiti alla Sanità,
alla Giustizia e, in particolare, alla gestione delle carceri e dell’emergenza
sanitaria dell’epidemia di colera, che offrono uno spaccato delle condizioni
socio-economiche e socio-sanitarie della comunità lughese alla metà del XIX
secolo.
L’ampio apparato didattico e illustrativo permette di inquadrare i reperti
esposti all’interno del contesto storico-sociale, ricostruendo la storia e
l’assetto urbanistico di Lugo alla metà del XIX secolo, l’organizzazione delle
prigioni e la vita carceraria, la diffusione dell’epidemia di colera e le sue
conseguenze demografiche.
La mostra rientra nell'iniziativa annualmente promossa dalla
Soprintendenza Archivistica per l'Emilia-Romagna "Quante storie nella Storia",
XIII settimana della didattica in archivio che si svolge dal 5 al 11 maggio 2014
La mostra è curata da Antonio Curzi (Archivio Storico Comunale di Lugo),
Chiara Guarnieri e Claudia Tempesta (Soprintendenza Archeologia dell'Emilia-Romagna)
Testi pannelli: Michela Bartolotti, Anna Maria Bertelè, Norino Cani, Antonio
Curzi, Gian Luigi Gambi, Chiara Guarnieri, Claudia Tempesta, Giovanni
Valentinotti
Foto: Gian Luigi Gambi, Anna Maria Bertelè, Maurizio Molinari
Grafica: Rossana Gabusi
Progetto di allestimento: Giovanni Liverani
Restauro materiali: Mauro Ricci (restauratore SBAER, direzione), Michela
Bartolotti, Gian Luigi Gambi, Stefano Mecati, Giovanni Valentinotti
Ricerche d’archivio: Anna Maria Bertelè, Norino Cani, Antonio Curzi, Giovanni
Valentinotti
Si ringraziano Daniele Serafini, Ivana Pagani, Antonio Poggiali, la
Biblioteca Comunale di Lugo "F. Trisi", i volontari del Comitato per
lo studio e la tutela dei beni storici di Lugo, e il Consorzio di Bonifica della
Romagna occidentale di Lugo
Con la partecipazione della Soprintendenza Archivistica per l’Emilia-Romagna e
dell'Unione dei Comuni della Bassa Romagna
Lugo alla metà dell'Ottocento
Già ai tempi della dominazione estense (1437-1598), Lugo era il centro più
importante della Romagna d'Este, un distretto che comprendeva i territori di
Bagnacavallo, Cotignola, Fusignano, Massa Lombarda, Sant'Agata e Conselice.
Passato alla Legazione Apostolica di Ferrara nel 1598 -grazie alla posizione
strategica all'incrocio tra le principali vie di comunicazione della regione e
all'esenzione dal pagamento di dazi e gabelle concessa da papa Clemente VIII
(1592-1605)- nei secoli seguenti Lugo rafforzò la propria importanza
commerciale, tanto che la fiera che vi si teneva annualmente tra agosto e
settembre divenne la seconda per importanza dell'intero Stato Pontificio, dopo
quella di Senigallia.
Questa situazione di prosperità, alimentata dai proventi del commercio e dalle
rendite fondiarie, e incrementata dal contributo della comunità ebraica locale,
subì una battuta d'arresto sul finire del Settecento quando Lugo, unica tra le
città delle Legazioni, tentò di opporsi all'invasione napoleonica. La resistenza
durò poco più di una settimana, dal 30 giugno al 7 luglio 1796, e si concluse
con la conquista e il saccheggio della città da parte dei Francesi.
Nonostante lo stretto legame con lo Stato Pontificio, di cui era tornata a far
parte con la Restaurazione e che l'aveva insignita del titolo di città nel 1817,
Lugo diede un significativo contributo alla causa risorgimentale: molti lughesi
parteciparono ai moti del 1831 e del 1853 e furono tra i promotori della Seconda
Repubblica Romana del 1849.
La separazione dallo Stato Pontificio si consumò definitivamente tra 1859 e il
1860, prima con la nascita di un governo provvisorio e successivamente con
l'annessione plebiscitaria al Regno di Sardegna (18 marzo 1860), diventato
l'anno seguente Regno d'Italia.
L’assetto urbanistico di Lugo alla metà dell'Ottocento
"E' al presente graziosa città, adorna di buoni edifici, fra' quali
avvene anche alcuni eccellenti. La piazza, destinata alla fiera che vi si tiene
in agosto, è guernita tutto intorno di grandiosi portici, i quali in quella
circostanza entrano in luoghi di fondachi e di botteghe". Così un anonimo
cronista del viaggio compiuto nel 1857 da papa Pio IX tra i possedimenti
dell’Italia centrale descrive Lugo alla vigilia della dissoluzione dello Stato
Pontificio.
Nella prima metà dell'Ottocento, Lugo aveva ormai assunto la sua definitiva
configurazione urbanistica, articolata su uno spazio centrale definito su un
lato dalla mole della Rocca Estense (all’epoca arricchita sul lato occidentale
da un loggiato neogotico adibito a pescherie) e sugli altri lati dalle fabbriche
settecentesche della chiesa del Suffragio (1720), della chiesa e del convento
del Carmine (1772), dell’Ospedale della Madonna del Limite (1796), del Collegio
Trisi (1777) e dell’adiacente Teatro Rossini (1761). Cuore nevralgico e
baricentro architettonico di questo spazio urbano era il grande quadriportico
del Pavaglione, che nel 1773 sostituì la semplice loggia che prospettava sul
Prato della Rocca, offrendo una cornice al tempo stesso scenografica e
funzionale allo svolgimento della fiera annuale.
Acquerello di Giovanni Bertazzoni raffigurante il lato nord-occidentale della
Rocca con il loggiato neogotico delle Pescherie, crollato nel 1892 (Lugo,
Biblioteca Comunale “F. Trisi”)
Dalla piazza, che ne costituiva il fulcro centrale, l’abitato si estendeva lungo tre direttrici principali (Borgo Brozzi ad ovest, Borgo di Codalunga ad est e Borgo del Limite a sud), che ripercorrevano il tracciato degli antichi assi centuriali, sui quali gli eleganti prospetti dei palazzi nobiliari e delle chiese si alternavano alle semplici facciate delle case più modeste e degli edifici assistenziali, mentre i grandi complessi conventuali dei Francescani, dei Domenicani e dei Cappuccini sorgevano in posizione più appartata.
La Rocca: storia e trasformazioni
L’aspetto attuale della Rocca, fulcro dell’impianto urbano di Lugo, è il
risultato di una serie di trasformazioni che si sono susseguite nel tempo.
Situata in corrispondenza dell’incrocio tra due assi della centuriazione romana,
la Rocca si sviluppò a partire da un primitivo recinto fortificato con palizzate
in legno e argini in terra; riedificata in muratura dopo essere stata distrutta
dai Faentini nel 1218, fu rinnovata dal condottiero Uguccione della Faggiola
alla fine del XIII secolo.
L’aspetto attuale dell’edificio si deve soprattutto alle trasformazioni degli
Estensi, dei cui domini Lugo era entrata stabilmente a far parte nel 1437. Al
Quattrocento risalgono l’impianto quadrangolare articolato intorno a un cortile
interno e una parte consistente delle strutture tuttora visibili, tra cui la
torre rotonda nord-occidentale nota con il nome di “mastio di Uguccione”.
Divenuta inadeguata a causa del perfezionamento delle armi di artiglieria, la
Rocca fu nuovamente ristrutturata nel 1568-1570 da Alfonso II d’Este che impiegò
i materiali di risulta provenienti dalla distruzione dell’antistante cittadella
per rafforzare le strutture esistenti e costruire bastioni avanzati sui lati
sud, ovest ed est.
Con il passaggio allo Stato della Chiesa (1598), la Rocca perse progressivamente
le proprie funzioni difensive pur mantenendo un ruolo centrale nella vita
civile, sociale ed economica di Lugo. Riadattato a residenza dei governatori
pontifici e quindi riconvertito a luogo di detenzione, il complesso fu
definitivamente svuotato delle sue funzioni militari tra il XVIII e il XIX
secolo. A questo periodo risalgono la trasformazione del bastione
sud-occidentale in giardino pensile e la costruzione di due edifici porticati a
ridosso dei terrapieni, adibiti ad usi civili (posta e uffici giudiziari) ed
economici (pescherie e ghiacciaie).
Attualmente la Rocca è sede dell’Amministrazione Comunale.
Le prigioni della Rocca
Dagli
Estensi ai legati Pontifici di Ferrara, la Rocca di Lugo era utilizzata con
funzioni amministrative, giudiziarie, militari e detentive; ancora nella seconda
metà dell’800, circa un quarto dei suoi vani erano adibiti a carcere. Dopo
l’Unità d’Italia e fino all’inizio degli anni '60 del Novecento continuò a
mantenere attive alcune celle, come sede di mandamento giudiziario.
Fin dal ‘600, le prigioni occupavano i due torrioni principali, quello circolare
di nord-ovest (detto di Uguccione) e quello quadrato di sud-est, a cui si
aggiunsero nel tempo le celle, tuttora visibili, poste a lato del giardino
pensile.
Dalla pianta delle carceri di Lugo, datata 1845 e conservata presso l’Archivio
di Stato di Roma, si può ricostruire il numero e l’organizzazione degli ambienti
della Rocca destinati a prigioni e la popolazione carceraria di quel tempo.
Al piano terra la Rocca aveva sia celle molto anguste, che potevano ospitare
fino a 6 detenuti (Passeggio, Pacalino), che altre più ampie, che potevano
ospitarne fino a 20 (Larga). Sempre a piano terra, erano ubicate l’Aula della
Visita, la Camera dei Secondini, la Camera del Custode e la Cucina ad uso della
fornitura delle carceri. Un’annotazione singolare riguarda il divieto, fatto dal
Cardinal Legato del tempo, di utilizzare come carcere la cella Galeotta, ubicata
nel Mastio di Uguccione.
Il piano superiore ospitava la cella destinata alle Donne, al tempo vuota, la
Camera del Custode, la Stanza ad uso Infermeria in grado di accogliere ben 7
degenti, i Magazzini ed altro ancora.
La Rocca, che nel 1845 ospitava 30 detenuti su un potenziale di ben 113, era al
tempo un carcere secondario di transito, distante circa 40 miglia da quello
principale di Ferrara.
Lo scarico del Mastio di Uguccione: il rinvenimento
Durante
i sopralluoghi effettuati nel 1985 nella Rocca di Lugo, fu individuata nel
torrione circolare di nord-ovest (detto “Mastio di Uguccione”) una
finestra interna murata che non aveva alcuna corrispondenza con l’esterno. Dopo
l’apertura, fu constatata la presenza di un'intercapedine tra il muro interno
della stanza e la cortina esterna della torre, utilizzata come pozzo nero delle
prigioni della Rocca tra XVI e XIX secolo e riempita da uno scarico di materiale
ceramico.
Questo scarico, caratterizzato da un’altezza massima di circa 10 metri rispetto
al piano di calpestio della piazza, era costituito da materiali appartenenti a
due fasi diverse, riferibili rispettivamente alla metà dell’Ottocento e ai
decenni centrali del Seicento.
Circa un terzo del materiale era composto da materiali seicenteschi (databili
tra il 1630 e il 1680), mentre la parte restante, pari ad alcune centinaia di
manufatti, era costituita da materiali più recenti (catini, piatti, brocche,
ciotole, pitali, in ceramica; bicchieri e bottiglie in vetro) facenti parte del
“corredo” dei carcerati e gettati nello scarico in occasione dell’epidemia di
colera del 1855.
L’aspetto forse più interessante del rinvenimento dei materiali ottocenteschi
risiede nel fatto che molti degli oggetti recuperati (in particolare brocche e
catini) presentavano all’esterno scritte graffite recanti date (comprese in
larga parte tra gli anni ’30 e gli anni ’50 dell’Ottocento), sigle e soprattutto
nomi e provenienze dei detenuti.
Le ceramiche rinvenute nello scarico
Lo scarico del mastio di Uguccione ha restituito un cospicuo numero di
ceramiche della seconda metà dell’800 che comprendono sia gli oggetti utilizzati
dai carcerati che le stoviglie in uso alla guarnigione di sorveglianza.
All'arrivo del colera, tutte queste stoviglie furono gettate all'interno del
vano per motivi igienici e di prevenzione e profilassi.
Nel XIX secolo la produzione di ceramiche romagnole è basata su manufatti
ordinari che possiamo dividere in stoviglie dozzinali da cucina, da fuoco (pignatteria)
e ad uso domestico (da cantina, da igiene, da camera). Si tratta di oggetti
realizzati in ceramica ad ingobbio, piuttosto dozzinali e prodotti in svariate
forme che troviamo puntualmente descritte nei Listini e Tariffe delle fabbriche
attive in quel periodo. Oltre alla produzione monocroma bianca, la più diffusa,
esistevano anche esemplari colorati in giallo o verde; altri prodotti,
soprattutto quelli destinati alla cottura dei cibi, erano semplicemente
invetriati in manganese, riconoscibili dal caratteristico colore nero delle
superfici.
Tra gli oggetti sicuramente appartenuti ai carcerati si segnalano -per l’ingente
numero e le importantissime iscrizioni- i piccoli catini in ceramica ingobbiata
bianca, seguiti da boccali e pitali, anch’essi del medesimo materiale. Con i
frammenti di questi oggetti i carcerati realizzarono una serie di pedine da
gioco, rinvenute numerose nello scarico.
Catino utilizzato dal carcerato Luigi Caravita e ciotola del carcerato Gaetano
Accanto a questi oggetti, di scadente qualità e certamente comperati in
serie, sono stati portati in luce anche boccali e piatti con decorazioni
policrome su fondo bianco. Si tratta anche in questo caso di esemplari di
fattura corsiva, i cui temi decorativi, “a fiorato” o a “uccelletto”, di facile
e veloce esecuzione, erano molto diffusi nelle fabbriche romagnole. Rinvenuto
anche un discreto numero di bottiglie o fiasche in smaltata bianca, di una forma
che trova ad esempio riscontro nei Listini delle fabbriche faentine, dove sono
individuate come bottiglie da vino o da birra: da notare la forma della bocca
predisposta per ospitare un tappo in sughero. A queste si aggiungono bicchieri e
bottiglie in vetro che hanno ormai assunto la forma che si conserva tuttora.
Tra gli oggetti rinvenuti nello scarico si segnala anche la presenza degli
scaldini, una delle forme più tipiche della ceramica ad uso domestico dell’800.
Questi oggetti, prodotti in diverse grandezze, facevano parte di una vasta
produzione a basso costo, che era presente in ogni locale della casa.
Accanto ai materiali ottocenteschi è esposta anche una piccola selezione dei
materiali dei secoli precedenti (XVII-XVIII), come ad esempio alcune pentole da
fuoco in ceramica invetriata con decorazioni ad ingobbio e piatti in smaltata
bianca o azzurra, conosciuta anche come “Senigallia”.
Le storie dei carcerati attraverso le fonti documentarie
I graffiti incisi su alcune brocche e catini rinvenuti all’interno dello
scarico ottocentesco hanno consentito di identificare alcuni "proprietari" e
in qualche caso anche di recuperarne la storia grazie alla ricerca archivistica.
Le ricerche effettuate nel Fondo criminale della Pretura di Lugo, conservato
all’Archivio di Stato di Ravenna, hanno permesso di ricostruire la storia di
Stefano Ponzi, soprannominato Massagnino, facchino di professione,
nato a Cotignola (RA) nel 1820 ma residente a Lugo, figlio di Antonio. Implicato in un caso di
ricettazione seguita a un furto di grano avvenuto la notte tra il 14 e il 15
agosto 1853 ai danni di Filippo Cotignoli, rimase in carcere per un anno e
mezzo. In seguito, non essendosi potuto dimostrare il reato di ricettazione dolosa a
suo carico, il Ponzi fu rimesso in libertà,
nonostante l’autorità giudiziaria volesse prorogarne la detenzione
considerandolo un sovversivo. Fu comunque sottoposto a precetto politico di rigore, una sorta di libertà
vigilata che comportava restrizioni come l’obbligo di dimora
e quello di presentarsi ogni quindici giorni all’autorità di polizia. Non
sappiamo se Stefano Ponzi sia spirato a causa del colera: certamente non è morto in carcere.
Un altro carcerato identificato grazie all’incrocio con le fonti documentarie è
Nicola Belletti, nato a San Lorenzo (Lugo, RA) il 26 giugno 1800 da Giuseppe e
Santa Selva, di cui tuttavia restano ignote le vicende giudiziarie e detentive.
Restano invece ancora da identificare i casi giudiziari di altri carcerati
lughesi i cui nomi sono incisi su alcuni catini, come Domenico Fenati e Luigi Caravita
oltre a un Gaetano e un Sante di cui resta ignoto il cognome.
L’epidemia di colera del 1855
“(…) Il morbo infuria, il pan ci manca (...)”, così il poeta Arnaldo
Fusinato descrive il colera nella sua poesia Addio a Venezia (1849).
La grande epidemia di colera del 1855 ebbe origine proprio a Venezia. Alcuni
soldati austriaci che avevano partecipato all’assedio della città lagunare nel
1848-1849, rientrando nelle Legazioni di Bologna, Ferrara, Forlì e Ravenna
contagiarono alcuni abitanti del territorio. I primi casi di colera sono
attestati a Malalbergo (BO), Ferrara, Ravenna e Bagnacavallo (RA) già alla fine
del 1849. Questi casi si replicarono sporadicamente in Romagna e nelle Marche
per tutto il periodo compreso tra il 1850 e il 1854, con successivi picchi di
virulenza nel ferrarese, a Codigoro e Lagosanto, e nelle Marche, a
Recanati e Senigallia.
Mutuando le esperienze consolidate a Venezia fin dall’epidemia di colera del
1630, le amministrazioni pubbliche delle Legazioni istituirono commissioni
sanitarie a livello dei Comuni e delle Province, per vigilare sull'applicazione
delle norme relative ai cosiddetti “cordoni sanitari”.
Fede di sanità di Giacomo Ferrari (“lasciapassare sanitario”) utilizzata nel
tragitto da Acquanegra a Desenzano (BS), 18 aprile 1749 (Lugo, collezione
privata)
I “cordoni sanitari” servivano a isolare le zone non infette dai contatti commerciali o dal semplice spostamento di persone provenienti dalle zone “sospette” o contagiate. Oltre a questi, furono predisposte apposite aree chiamate “lazzaretti” per il ricovero e la cura degli infetti e per la quarantena delle merci e delle persone provenienti dalle zone infette ma non attaccati dal male. Queste epidemie, provocavano gravi ricadute sul tessuto economico, bloccando gli scambi commerciali, e conseguentemente i mercati locali, fondamentali per l’economia del territorio.
Il colera a Lugo e nella Bassa Romagna
Per
diffusione e numero dei morti, l’epidemia di colera del 1855 fu la più grave mai
verificatasi nelle Romagne.
Tra i mesi di febbraio e novembre si ammalarono 20.706 persone, con 12.129
decessi.
Nel territorio della Bassa Romagna, il primo caso fu segnalato a Lugo, città
particolarmente esposta al contagio in quanto sede di mercato, il 22 febbraio
1855; l’epidemia si concluse a Massa Lombarda (RA) il giorno 30 novembre 1855.
Gli abitanti di Lugo colpiti dalla malattia furono in larga parte ricoverati nel
lazzaretto ubicato in via Fossa, fuori Porta San Bartolomeo, dove
ricevettero le cure dei medici locali, i dottori Francesco Ballotta e Francesco Scardovi.
Nel Cimitero monumentale di Lugo è possibile visitare il monumento funerario del
Dott. Francesco Scardovi (1809-1911), morto il 12 dicembre 1911 alla veneranda
età di quasi 103 anni.
La discussione sull’origine del male divise all’epoca i vari medici tra coloro
che erano convinti del contagio e quelli che attribuivano l’origine della
malattia agli ambienti insalubri, alla scarsa igiene o alle smodatezze
nell’alimentazione. Nelle disposizioni sanitarie dell’epoca, compaiono così
prescrizioni curiose, come quelle che vietano di consumare meloni e cocomeri, di
mangiare frutta troppo acerba o troppo matura, e di bere vino nuovo.
Il colera (fonte
www.vaccinarsi.org )
Il colera è una malattia infettiva del tratto intestinale, caratterizzata dalla
presenza di diarrea intensa, spesso complicata con acidosi, enorme perdita di
liquidi e sali minerali, e vomito. L’agente responsabile è il Vibrio cholerae,
un batterio a forma di bastoncino corto e ricurvo, capace, una volta superata la
barriera gastrica, di produrre una potente tossina a cui si devono i sintomi
della malattia. Il vaccino è stato scoperto soli nel 1883 dal medico tedesco
Robert Koch.
L’infezione avviene per ingestione di alimenti (verdura, frutta, molluschi) o
assunzione di acqua contaminata da feci o vomito di persone infette.
La malattia si manifesta dopo una breve incubazione. Il paziente è ipoteso, con
pulsazioni cardiache elevate, diuresi ridotta o addirittura assente e algidità
progressiva. Se non si interviene tempestivamente con adeguata idratazione e
reintegro dei sali minerali persi, la situazione degenera fino alla morte.
Attualmente il tasso di mortalità per malattia non trattata supera il 50%.
In Italia, l’ultima importante epidemia di colera risale al 1973 in Campania e
Puglia. Nel 1994 si è verificata a Bari un’epidemia di limitate proporzioni, in
cui sono stati segnalati meno di 10 casi. Da allora, l’unico episodio descritto
risale all’agosto del 2008 in un soggetto di sesso maschile rientrato da un
viaggio all’Estero (Egitto).
Inaugurazione sabato 12 aprile 2014 ore 11
con ingresso da Via Garibaldi n. 16
SALUTI
Raffaele Cortesi (Sindaco di Lugo)
Marco Scardovi (Assessore alla Cultura, Comune di Lugo)
Marco Edoardo Minoja (Soprintendente per i Beni Archeologici
dell’Emilia-Romagna)
INTERVENTI
Claudia Tempesta (Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna)
Chiara Guarnieri (Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna)
Antonio Curzi (Comune di Lugo)
Giovanni Valentinotti (Comitato per lo Studio e la Tutela del Beni Storici di
Lugo)
In occasione dei MERCOLEDI' SOTTO LE STELLE
nelle giornate di mercoledì 1, 8, 15, 22 e 29 luglio 2015
la mostra
resterà straordinariamente aperta anche dalle 20.30 alle 23.30