Relazione di Daniela Ferriani, storica dell’arte
Soprintendenza per il Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico di
Modena e Reggio Emilia
Dopo la soppressione napoleonica del convento dei Francescani, l’esercito
francese utilizzò la chiesa come stalla ed anche il monumento funebre dei
Belleardi, realizzato in terracotta tra il 1528 e il 1529 dal celebre
plasticatore Antonio Begarelli (Modena 1499-ivi 1565) e che si trovava sulla
parete a sinistra, venne demolito con tutti gli altri altari.
L’episodio, avvenuto nel 1807, è paradigmatico di quanto si legge nei manuali di
storia dell’arte circa le rapine e gli scempi prodotti alle chiese italiane
dalle milizie francesi. I 440 frammenti del monumento di Antonio Begarelli,
ritrovati sotto il pavimento durante gli scavi della Soprintendenza per i Beni
Archeologici dell’Emilia-Romagna, testimoniano la ‘perizia’ con cui il martello
francese li ridusse al minimo delle dimensioni, ottimali affinché il massetto
pavimentale con essi realizzato lasciasse scolare meglio l’orina dei cavalli.
Qualche cittadino emerito pensò bene di salvare da questo destino alcuni pezzi
non ancora frammentati dal piccone, quelle poche parti intere che andarono poi a
far parte della Galleria Estense (la figura di Lionello Belleardi e la testina
di un angioletto) e del Museo Civico (la testa di un angelo).
La tomba Belleardi venne ultimata da Antonio Begarelli nel 1529 su incarico
affidatogli da Giacomo Belleardi, Conservatore della Comunità cittadina, subito
dopo la morte del fratello Lionello, avvenuta il 24 di febbraio del 1528.
Giacomo Belleardi fu il maggiore protettore dello scultore entro la committenza
privata, prima dei grandi incarichi di parte ecclesiastica affrontati da
Begarelli per gli ordini religiosi (Modena, Parma, San Benedetto Po). Prima del
1529, per conto della Comunità, il medesimo Giacomo Belleardi gli aveva
richiesto la Madonna di Piazza (1522); tra breve (1531) gli avrebbe affidato
quella Maddalena per la chiesa del Carmine che, di recente riconosciuta entro un
cortile dell’Ospedale Estense, è oggi collocata nell’atrio del nuovo ospedale di
Baggiovara.
Begarelli aveva già affrontato il tema del sepolcro negli anni fra il 1525 e il
1527, con la tomba di Gian Galeazzo Boschetti della chiesa parrocchiale di San
Cesario sul Panaro.
Giacomo Belleardi volle erigere un monumento duplice, dedicato sia alla memoria
del padre, il banchiere Francesco, che a quella di Lionello, che era stato
giureconsulto e uomo di lettere (sua è la Cronaca della Città di Modena fra il
1512 e il 1518). Forse è per questa ragione che il personaggio fu inventato dal
Begarelli mentre tiene un libro in mano e vestito della toga dottorale, come
vediamo nel busto esposto nella Galleria Estense e come ricordano le fonti. La
più importante di queste, in quanto entra nel merito specifico, è la lettera con
la quale l’avvocato Giulio Besini descrisse la demolizione della tomba a Don
Antonio Rovatti per la sua Cronaca di Modena (dal 1796 in poi). Tale lettera
venne poi utilizzata dai tre eruditi modenesi Galvani, Malmusi e Valdrighi per
descrivere l’opera così perduta nel testo dedicato al Mazzoni e al Begarelli (Le
opere di Guido Mazzoni e Antonio Begarelli, celebri plastici modenesi…1823).
Non possediamo della tomba alcuna testimonianza grafica attraverso disegni o
stampe. È solo la descrizione dell’avvocato Besini che ci consente di conoscere
le parti del monumento e di immaginarne l’aspetto: si trattava di una nicchia ad
arco, con al di sopra la figura del Cristo Risorto benedicente con la mano
destra e con la sinistra reggente il vessillo della croce. Sotto il Cristo erano
due angioletti ridenti che afferravano un lembo di nube come per sostenersi; la
testina di uno dei due è esposta nella Galleria Estense. Ai lati della nicchia,
in piedi sulle nubi, erano due figure di angeli adolescenti: immaginiamoli con
grandi ali e lunga veste, ciascuno con un cartiglio che allude alla morte dei
giusti. La testa di uno di questi angeli è oggi conservata al Museo Civico.
Dentro la nicchia ad arco contornato da un cornicione, il sarcofago poggiava
“con quattro zampe sopra di un lastrone di marmo sostenuto da due gran mensole,
le quali includevano la iscrizione”…(Besini). Il sarcofago rivestito di
“contorno” o “vaghissima fascia piena zeppa di sfingi, candelabri e rabeschi”
portava al centro “l’arme de’ Belleardi, ornata di festoncini, a’ quali
corrispondevano lateralmente nel muro due corone di quercia entro le quali
vedevansi due scudetti con vari motti scolpiti“. Di questa parte, dall’esame
sommario dei pezzi consentito dalla prudenza nel maneggiarli, sono stati
individuati frammenti di iscrizioni e parti delle zampe leonine.
Al di sopra del coperchio del sarcofago erano poste le figure del padre e del
figlio. Prosegue Besini: “Il suo coperchio era invisibile perché due statue sul
medesimo collocate lo coprivano interamente. Nella prima era effigiato in età di
oltre sessant’anni il banchiere Francesco padre di Leonello Belleardi, che
appoggiava la faccia sul braccio sinistro, e teneva nella destra una borsa
simbolo della di lui professione. Coperto il capo con un berreto , giacevasi
proteso ad occhi chiusi in atto di darsi ad un placidissimo sonno…”
Di questa zona del monumento si è riconosciuta la testa di Francesco Belleardi,
che sembra essere risarcibile con il riaccostamento dei suoi pezzi. Del Cristo
Risorto si è riconosciuto il busto, l’esame delle cui proporzioni servirà di
fondamento alla ricerca mirata della testa, forse presente, per ipotesi già
fatta dagli studiosi, in qualcuna delle teste di Salvatore sparse fra musei e
collezioni private. Appartengono alla veste del Cristo o a quella degli angeli
laterali alcuni panneggi, in cui si osserva, oltre alla stesura del famoso
bianco finto marmo del Begarelli, anche l’orlo dorato; degli angeli o degli
angioletti rimangono parti delle ali.
Allo stato attuale e prima del restauro, questo ritrovamento consegna alla città
più che un’opera d’arte, la testimonianza concreta della sua rovina. La
restituzione dell’intero, anche solo a livello virtuale con la riconnessione
informatica dei 440 frammenti, non pare essere cosa di semplice fattibilità. Di
fattibile ed urgente è comunque il fissaggio di quella superficie pittorica
bianca (colore dato da biacca con legante lipidico) che, ancora in essere ma già
tendente a polverizzarsi, è testimonianza di una tecnica originale che potrà
essere di parametro per lo studio di altri esempi dell’arte di Begarelli, là
dove il bianco si sia conservato ovvero, nella città di Modena, solamente nel
grande “altare delle statue” della chiesa modenese di San Pietro, che si auspica
possa venire finalmente restaurato, anche sull’onda di questo rinnovato
interesse per Begarelli.
Il fissaggio del bianco nei frammenti renderà possibile il primo riaccostamento
fisico dei pezzi, senza pericolo di cadute di tale fragile superficie.
Solo in seguito si potrebbe utilizzare la scansione tridimensionale per tentare
l’accostamento dei frammenti nelle parti contigue. Gli attuali sistemi
informatici di fotocomposizione dei quali si ha esperienza nel bidimensionale,
per la ricostruzione di opere quali gli affreschi di Cimabue ad Assisi o la
cappella Ovetari del Mantegna a Padova, hanno avuto esito felice in quanto si
trattava di riconoscere il punto di riapplicazione entro una immagine (la
fotografia) data.
Ma qui, come detto, si tratta di operare senza alcun riferimento di immagine, e
si spera che le riconnessioni, quando possibili, riottengano forme almeno
parziali dei corpi da confrontarsi con le figure descritte da Giulio Besini così
da consentire una ipotesi di ricostruzione la più vicina possibile alla sua
perduta realtà fisica.
Riferimento bibliografico a G. Bonsanti , Antonio Begarelli, Modena, Banca Popolare dell’Emilia Romagna, 1992; D. Ferriani, scheda in Nicolò dell’Abate. Storie dipinte…., a cura di S.Béguin e F.Piccinini catalogo della mostra ( Modena), Cinisello Balsamo , Milano, 2005