Le indagini archeologiche nella chiesa di San Francesco a Modena
Home - Comunicati stampa - Allegato per cartella stampa (14 febbraio 2008)

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Relazione di Donato Labate, archeologo
Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna

I lavori di manutenzione straordinaria e consolidamento statico nella chiesa di S. Francesco a Modena hanno fornito un’importante occasione per indagare in modo approfondito una delle più antiche chiese della città, il cui impianto originale risale al 1244. Gli scavi, condotti tra settembre e dicembre 2007, hanno individuato 33 sepolture contenenti diversi reperti di interesse archeologico, quali rosari, medagliette, monete, anelli, targhette in piombo ed in bronzo e numerosi spilli.
Dalla sottofondazione dei livelli pavimentali più antichi provengono inoltre numerose monete bassomedievali, un singolare sigillo papale plumbeo riferibile a papa Celestino V e soprattutto 440 frammenti del Monumento funebre Belleardi, un’opera dello scultore rinascimentale Antonio Begarelli distrutta a colpi di martello nel 1807 (esattamente due secoli fa), quando la chiesa fungeva da stalla per le truppe di Napoleone Bonaparte.
Il cantiere è stato sottoposto fin dall’inizio al controllo dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna. I lavori di scavo, sotto la direzione scientifica del Soprintendente Luigi Malnati e dell’archeologo Donato Labate, sono stati coordinati sul campo da Francesco Benassi, della cooperativa Ares di Ravenna; le indagini archeologiche sono state condotte in accordo con la Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio per le province di Bologna, Modena e Reggio Emilia.

La rimozione dei piani pavimentali, necessaria al consolidamento strutturale delle fondazioni dell’edificio, ha messo in luce strutture murarie pertinenti a sepolcri contenenti resti umani. Sono state rinvenute 33 tombe/ossuari, molte della quali danneggiate dalle demolizioni dell’inizio dell’800 quando la chiesa fu trasformata in stalla per la cavalleria francese. Lo scavo archeologico stratigrafico ne ha indagate 21, tutte danneggiate e con la copertura a volta già demolita.
Le tombe sono databili dal XIII al XVII-XVIII secolo e sono per lo più pertinenti a illustri famiglie modenesi, come documentato dalle cronache. La tomba più antica, del tipo a cassa con copertura alla cappuccina, è stata rinvenuta all’ingresso della chiesa e risale all’epoca della fondazione (XIII secolo).
I sepolcri sono distribuiti su quasi tutta la superficie interna della chiesa e si trovano appena al di sotto di una pavimentazione in ciottoli realizzata in epoca napoleonica a seguito della trasformazione della chiesa in scuderia (1807).
Le tombe, a cassa laterizia, hanno forma rettangolare e copertura a volta. Le volte sono state generalmente demolite per realizzare la pavimentazione ottocentesca; risale a questo intervento anche la rimozione delle lapidi sepolcrali che originariamente coprivano le botole di accesso ai sepolcri e ne permettevano l’identificazione. Molte lapidi si sono salvate dalla distruzione e sono oggi conservate al Museo Lapidario di Modena; la loro asportazione ha reso tuttavia impossibile l’identificazione dei rispettivi sepolcri.
A seguito della distruzione della parte superiore delle volte, i sepolcri sono stati colmati con macerie e terreno di riporto che hanno coperto le deposizioni funebri. In questa terra di riempimento e nei depositi antropici relativi al periodo di costruzione della chiesa è stato individuato parecchio materiale archeologico risalente all'impianto duecentesco dell'edificio, tra cui monete medievali, medaglie e un sigillo papale riferibile, se non al solo, certo al più famoso papa dimissionario della storia, Celestino V.
Ancora oggi, la storiografia ufficiale fornisce pareri controversi sul gesto di Celestino V. Secondo alcuni, sarebbe proprio lui il personaggio di cui Dante Alighieri parla nel III Canto dell'Inferno quando dice: «Poscia ch'io v'ebbi alcun riconosciuto, vidi e conobbi l'ombra di colui che fece per viltade il gran rifiuto» Sia come sia, trovare in una chiesa di Modena il sigillo di un pontefice rimasto in carica per poco più di tre mesi è cosa perlomeno singolare.
La tipologia prevalente dei sepolcri presenta, sul lato maggiore del vano, un letto funebre in laterizi, dotato di cuscino, su cui veniva deposto il defunto: quando si doveva procedere ad una nuova deposizione, i resti precedenti venivano composti e sistemati ai piedi del letto funebre, sul fondo del sepolcro, oppure in appositi loculi ricavati sotto il giaciglio funerario. In origine i defunti erano semplicemente avvolti in sudari, chiusi con spilli in bronzo; in altri casi erano invece deposti all’interno di casse lignee, documentate dal ritrovamento di piccoli frammenti di legno e di numerosi chiodi in ferro. Il corredo funerario, spesso non cospicuo, era costituito da medagliette sacre in bronzo e rosari (con grani in legno o steatite), raramente associati a piccoli crocefissi, anellini o monete. Un’attenta setacciatura del terreno delle tombe ha permesso di recuperare diversi reperti d’interesse archeologico quali rosari, medagliette, monete, anelli, targhette in piombo ed in bronzo e numerosi spilli.
Nel terreno di riempimento della tomba 30, situata nella navata centrale della chiesa nonché l’ultima ad essere scavata prima della conclusione delle indagini archeologiche, c’è stato infine un ritrovamento sorprendente: 440 frammenti di terracotta relativi al monumento funerario commissionato nel 1528 ad Antonio Begarelli da Giacomo Belleardi, Conservatore della Comunità di Modena (una sorta di Consigliere Comunale).
L’attribuzione al Begarelli, inizialmente supposta dagli archeologi Labate e Benassi sulla base delle fonti bibliografiche consultate nel corso delle indagini archeologiche, è stata confermata dalle storiche dell’arte Sonia Cavicchioli, dell’Università degli Studi di Bologna, e Daniela Ferriani, della Soprintendenza per il Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico per le Province di Modena e Reggio Emilia.
Il monumento coroplastico commissionato da Giacomo Belleardi ad Antonio Begarelli (1499-1565) era considerato una delle sue più pregevoli opere nonché uno dei pochi monumenti funebri dello scultore modenese. Di esso non possediamo alcuna testimonianza grafica, né disegni né stampe. Solo la descrizione dell’avvocato Giulio Besini, che racconta la demolizione della tomba a Don Angelo Rovatti, ci consente di ricostruirne l’aspetto. Il monumento ritraeva il fratello di Giacomo, Lionello, ed il loro padre Francesco. La statua di Francesco era posta sul coperchio dell’arca funeraria; l’uomo era ritratto con tutti i segni della vecchiaia (“in età di oltre sessant’anni”), gli occhi chiusi (“in atto di darsi ad un placidissimo sonno”), il capo -coperto da un berretto- appoggiato alla mano sinistra mentre con la destra reggeva una borsa, simbolo della sua professione di banchiere. Seduto accanto all’arca, il figlio Lionello indossava una toga dottorale, tenendo fra le mani un codice, allusivo alla sua professione di giureconsulto.
Nella parte superiore della composizione il complesso statuario era arricchito dalla figura del Cristo Redentore, seduto, il braccio destro levato in atto benedicente, la mano sinistra a reggere una croce; ai suoi piedi, due putti emergenti a mezzo busto dalle nubi mentre due angeli a figura intera, ciascuno con un cartiglio recante un motto relativo alla morte del giusto, erano posti ai lati della composizione.
I frammenti rinvenuti nel corso delle recenti indagini archeologiche sono generalmente ricoperti di biacca, ad eccezione di alcuni elementi non decorati o con particolari dorati. Sono riconoscibili parti pertinenti il volto di Francesco Belleardi, una porzione di toga con un fermaglio dorato, le zampe leonine che costituivano i quattro appoggi dell’arca funeraria, il busto del Cristo Risorto, parti del corpo dei putti, i due cartigli iscritti e ghirlande vegetali, riccamente adorne di frutti e foglie di alloro. Di questo monumento, distrutto a colpi di martello il 1 luglio del 1807, quando la chiesa era ormai ridotta a stalla per la cavalleria francese, erano noti finora solo tre frammenti, di cui due conservati nella Galleria Estense di Modena (la testa di un angioletto ed il busto di Lionello Belleardi) e il terzo al Museo Civico di Modena (la testa di un angelo). Il recente rinvenimento rappresenta pertanto un fatto assolutamente straordinario che arricchisce il panorama dell’opera begarelliana.
In origine il monumento era posto in un’ampia nicchia scavata nel muro laterale della navata sinistra della chiesa, in corrispondenza di un’antica finestra. La composizione plastica, alloggiata sotto un arco coperto da un elegante cornicione, circondava l’arca sepolcrale con l’effige della famiglia Belleardi, sotto la quale era l’iscrizione funeraria, datata 1529.