All’origine dei non-morti. Un inconsueto contributo alla storia dell’uomo
Morti che tornano (e parlano). I cold cases degli archeologi
A Castelfranco Emilia (MO), la mostra “Sepolture anomale. Indagini archeologiche e antropologiche dall’epoca classica al Medioevo in Emilia Romagna” illustra una decina di comportamenti “devianti” o poco ortodossi adottati dagli antichi tra il IV sec.a.C. e l’epoca medievale nei rituali di trattamento e deposizione dei defunti
Castelfranco Emilia (MO)
Museo Civico Archeologico
Palazzo Piella, Corso Martiri 204
da sabato 19 dicembre 2009 a domenica 21 febbraio 2010
Orari: Martedì e mercoledì 10-13; Venerdì 10-13 e 15-18; Sabato 9-13 e 14-17;
Domenica 10-12 e 15-19
Ingresso gratuito
Info 059.959367
Sono
quasi sempre maschi, giovani adulti di età compresa tra i 25 e i 35 anni, gli
arti orrendamente mutilati, i crani asportati o trafitti da chiodi, i corpi
sepolti faccia a terra, spesso legati, parzialmente cremati o devastati in modo
cruento.
Le chiamano deviant burials, letteralmente sepolture devianti. Sempre più
spesso la ricerca archeologica ci consegna da un passato nemmeno troppo remoto
queste tombe anomale in cui sembra sia saltato il nesso di causalità tra morte e
pietà.
Eppure in queste pratiche non c’è livore o sete di vendetta: se qualcosa le ha
mosse è stato il terrore. Si infieriva sul cadavere in modo così brutale per
respingere o prevenire i cosiddetti “revenants”, “coloro che ritornano”.
La mostra “Sepolture anomale. Indagini archeologiche e antropologiche dall’epoca
classica al Medioevo in Emilia Romagna”, allestita al Museo Civico Archeologico
di Castelfranco Emilia dal 19 dicembre al 21 febbraio, illustra una decina di
sepolture anomale rinvenute durante scavi diretti dalla Soprintendenza per i
Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna nel Modenese, a Bologna e a Casalecchio di
Reno.
I reperti scheletrici sono esposti con il proprio corredo, in modo da ricreare
la situazione di rinvenimento delle tombe. Per mettere in luce i riti e le
peculiarità di queste sepolture, che vanno dal IV sec.a.C. al Medioevo, gli
archeologi hanno lavorato a stretto contatto con gli antropologi del Laboratorio
di Bioarcheologia e Osteologia Forense dell’Università di Bologna.
Che ci si muova nel multiforme universo religioso romano o all’interno della
dottrina monoteista cristiana, queste pratiche poco ortodosse ricorrono
carsicamente nei rinvenimenti archeologici, rivelando una sostanziale
necrofobia, legata alla volontà di impedire al cadavere, in forma corporea o
spirituale, di nuocere ai vivi.
La legatura dei cadaveri nella necropoli di età Celtica, lo strano rapporto tra
cremazione e calzature in un sepolcreto romano di II-IV secolo, le mutilazioni
rituali, le sepolture prone e altre pratiche post-mortem riscontrate in
numerose tombe di età tardo romana o i crani chiodati di XII secolo rinvenuti in
San Pietro a Bologna non sono altro che le ingegnose soluzioni inventate dai
nostri antenati per proteggersi dai defunti. Si cercava di evitare il ritorno
del cadavere ricorrendo ad impedimenti fisici, legando, inchiodando, bruciando,
mutilando arti e testa, disorientando il morto per impedirgli di trovare la via
di superficie.
Non sappiamo cosa li abbia spinti ad adottare nei confronti di alcuni individui
misure così drastiche. I racconti popolari narrano di persone fortemente
negative, con una vita spesa ai margini della società: vita che pareva si
rifiutasse di abbandonare il corpo persino dopo la morte.
Resta aperto il problema di cosa favorisse la comparsa di queste entità maligne,
come venissero riconosciute e in che modo venissero trattare per far cessare le
loro azioni. La nascita di un revenant poteva avvenire per cause diverse. Per
predisposizione individuale, come nel caso di persone socialmente indesiderate,
malfattori, stregoni o di religione diversa da quella comunemente praticata; per
predestinazione, come i nati in certi periodi dell’anno, malformati o con la
“camicia rossa” cioè il volto coperto dalla membrana amniotica, caratteristiche
che candidavano al ritorno dall’aldilà; per le particolari azioni compiute in
vita o per le cause della morte, specialmente se repentina, violenta o suicida;
infine per essere stati morsi da un revenant divenendolo essi stessi, un tema
caro alla fiction piuttosto che alla storia visto che nei racconti folklorici
non esiste la figura del vampiro che crea stuoli di fedeli sudditi semplicemente
succhiando il loro sangue.
Al momento del trapasso, su queste persone venivano attuate una serie di
strategie atte ad impedire il ritorno dall’aldilà: deposizione nella tomba di
particolari oggetti con funzione apotropaica, sepoltura non canonica (inumazione
del cadavere legato o in posizione prona), manomissione del corpo con inserzione
di oggetti appuntiti e amputazioni di vario tipo, distruzione completa del
cadavere tramite cremazione.
Ma a volte il Revenant si manifestava a scoppio ritardato, denunciato da
una serie di eventi soprannaturali o inspiegabili che potevano essere attribuiti
solo a un’entità malvagia. In questi casi, i cadaveri dei sospetti venivano
riesumati e poiché, a causa della decomposizione in atto, i loro corpi
presentavano tutti i segni dell’attività tipica dei non-morti (membra
flessibili, bocca aperta, denti scoperti, gonfiori al ventre causati dai gas
della putrefazione), si agiva su di essi con una serie di strategie letali,
della più varia natura.
Gran parte di questi riti non lascia tracce a livello archeologico: estrarre il
cuore e bruciarlo, percuotere le membra, deporre spine, rovi, reti da pesca
nella tomba sono quasi impossibili da determinare. Ma anche il rimedio più
celebre, trapassare il cuore con un paletto di legno, può risultare invisibile
se non viene sfondato lo sterno del cadavere.
Talora invece, di queste pratiche resta traccia sui reperti ossei. Per
assicurare l’effetto mortale dell’intervento, all’azione magico-religiosa si
associa spesso l’azione meccanica che avrebbe avuto efficacia anche su un corpo
vivo. Gli oggetti taglienti o appuntiti sono sempre efficaci per fermare un
revenant, così come la disarticolazione o il taglio dei piedi (per impedirgli di
camminare) o la sepoltura prona (per evitare che si faccia strada verso la
superficie), per non parlare della decapitazione, un sistema così appropriato e
trasversale da funzionare anche coi santi.
La mostra, curata dagli archeologi Luca Cesari, Diana Neri e Jacopo Ortalli e dagli antropologi Maria Giovanna Belcastro, Valentina Mariotti e Marco Milella, è promossa dal Museo Civico Archeologico di Castelfranco Emilia con il patrocinio del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e dell’Università degli Studi di Bologna e la collaborazione della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna, del Dipartimento di Scienze Storiche dell’Università di Ferrara, del Dipartimento di Scienze dell’Antichità e del Vicino Oriente dell’Università Cà Foscari di Venezia e del Dipartimento di Chimica dell’Università di Modena.
L’inaugurazione della mostra è preceduta da una giornata di studio che si
svolge il 19 dicembre 2009, nella Biblioteca Comunale di Castelfranco Emilia, a
partire dalle ore 9,30
Guida della mostra in vendita presso il Museo.