Archeologia a porte aperte
Visite guidate alle stele romane conservate nel Cortile d’Onore di
Palazzo Ancarano, sede della Soprintendenza per i Beni Archeologici
dell’Emilia-Romagna
Via Belle Arti n. 52 a Bologna
lunedì 16 e giovedì 19 aprile 2012, dalle ore
10 alle 14
una ogni ora per max 20 persone
Iniziativa a cura dei Servizi Educativi della Soprintendenza Archeologia dell'Emilia-Romagna, con gli archeologi Paola Desantis, Laura Forte, Alberto Stignani e Claudia Tempesta
C’è Titus Eborellius con quella che oggi chiameremmo la sua famiglia
allargata (la concubina Benigna, più tre liberti), c’è Caius Fricinius Primicenus
e la moglie Aelania Parthenope, c’è un’intera famiglia di sei persone sepolta
lungo la via Emilia, in località Bitone. Le epigrafi incise sulle stele
tramandano non solo i nomi, le parentele e lo status sociale dei cittadini della
Bologna romana, ma arricchiscono la conoscenza della storia di Bononia e dei
suoi abitanti nel periodo che va dalla tarda età repubblicana alla prima età
imperiale (fine I secolo a.C. - I secolo d.C.)
In occasione della XIV Settimana della Cultura,
gli archeologi della Soprintendenza accolgono il pubblico nella propria sede di
via Belle Arti 52, nel cortile del prestigioso palazzo che per un certo periodo
ha ospitato il Collegio Ancarano, fondato nel 1414 per dare alloggio a giovani
studenti di diritto civile e canonico.
Le visite guidate illustrano i diversi monumenti funerari di età romana
provenienti dal territorio bolognese. Pur nella loro brevità, le epigrafi
restituiscono molti elementi utili a ricostruire un tassello di vita cittadina,
dimostrando anche come, dalla semplice indicazione del nome del defunto e della
sua famiglia (gens) o da un modesto monumento funerario, si possano ricavare
informazioni in grado di approfondire la conoscenza della storia antica.
Le visite guidate, per gruppi di max 20 persone per volta, iniziano alle 10 e proseguono con cadenza oraria fino alle 14
È gradita la prenotazione tel. 051223773 (lunedì-venerdì dalle 9 alle 15)
oppure via mail
laura.forte@beniculturali.it
clicca qui per scaricare i seguenti pdf
Depliant informativo sui reperti
e sul Palazzo Ancarano
Mappa monumenti cortile SBAER
(realizzazione: Rossana Gabusi)
Mappe con elenco reperti e indicazione del
luogo del ritrovamento (realizzazione: Alberto Stignani)
I reperti conservati all’interno di Palazzo Ancarano, aperto al pubblico in
occasione della XIV Settimana della Cultura nell’ambito dell’iniziativa
“Soprintendenza a porte aperte”, provengono da scavi archeologici effettuati a
Bologna nel corso del XX secolo.
Nella loro varietà tipologica, cronologica e funzionale, i materiali esposti nel
cortile, lungo lo scalone d’accesso e al primo piano di Palazzo Ancarano
-iscrizioni, elementi architettonici, dolii, anfore, mosaici, intonaci-
costituiscono altrettanti frammenti della storia di Bologna e restituiscono un
quadro, vivido benché parziale, della vita quotidiana della città tra l’Età del
Ferro e l’età romana.
Essi sono tuttavia anche la testimonianza materiale degli scavi che nell’arco di
circa cinquanta anni hanno trasformato ampi settori della città, adeguandone la
forma e la funzione alle esigenze del presente. I materiali rappresentano dunque
anche il segno visibile della possibilità di contemperare le necessità della
città attuale, che vive e si trasforma ogni giorno, con le esigenze della
conoscenza, della conservazione e della valorizzazione del patrimonio
archeologico, attraverso una mediazione costante che costituisce l’obiettivo e
il significato più profondo del lavoro che, in stretta collaborazione con altri
soggetti pubblici e privati, la Soprintendenza svolge quotidianamente.
Palazzo Ancarano, sede della Soprintendenza Archeologia dell'Emilia-Romagna
di Alberto Stignani, SBAER
Il Collegio Ancarano fu istituito a partire dagli anni '30 del XV secolo per
volontà testamentaria di Pietro d’Ancarano (1414), lettore nello Studio
bolognese; era nato per dare ospitalità agli studenti poveri di diritto civile
e canonico, sia italiani che stranieri.
Il Collegio sorse presso la residenza dell'Ancarano, in val d'Aposa, vicino alla
parrocchia di San Martino della Croce dei Santi (chiesa, oggi scomparsa, che
sorgeva nell'odierna via Val d'Aposa), e fu affidato al giuspatronato
dell'Università.
Agli inizi del 1500 il Collegio fu dato in commenda al cardinal Alessandro
Farnese, futuro papa Paolo III, e alla sua morte rimase sotto il controllo dei Farnese di Parma, che
vi mandavano gli studenti del proprio Stato. Quando don Carlo di Borbone, già
duca di Parma, divenne sovrano a Napoli, indirizzò al collegio i giovani del
Regno delle Due Sicilie.
Nel XVI secolo il collegio si trasferì in Borgo della Paglia (attuale via Belle
Arti), e da qui fu poi trasferito nell'area dell'attuale piazza Cavour.
Nel 1627 fu avviata la costruzione del noviziato dei Gesuiti, con l'acquisizione
di immobili all'interno di un vasto isolato che prospettava sull'attuale via
Belle Arti. Il palazzo del Collegio fu così inglobato nel grande complesso che
comprendeva il noviziato e, dal 1728, la chiesa di Sant'Ignazio, progettata da
Alfonso Torreggiani (oggi aula magna dell'Accademia di Belle Arti).
Nel 1773 l'ordine gesuita fu soppresso da papa Clemente XIV (1705-1774) e i
locali del noviziato furono per breve tempo affidati ai padri delle Missioni.
Nel 1804 la sede del noviziato accolse la nuova Accademia Nazionale di Belle
Arti, la ex Accademia Clementina, presso cui furono depositate le opere d'arte
provenienti dalle congregazioni religiose soppresse, che oggi costituiscono il
patrimonio della Pinacoteca Nazionale e dell'Accademia.
Il cortile ospita dagli anni Trenta del secolo scorso (ovvero da quando la
Soprintendenza per le Antichità è stata trasferita in questo edificio) alcuni
monumenti funebri rinvenuti nel territorio comunale di Bologna durante scavi,
anche casuali (è noto, ad esempio, il caso di una stele recuperata in una
cantina privata). Si tratta di parti di colonna, frammenti architettonici,
bacili in pietra e di una quindicina di stele, prevalentemente in arenaria
Le epigrafi dei monumenti funerari conservati nel cortile
di Laura Forte, Archeologa SBAER
Le epigrafi attualmente conservate ed esposte nel cortile della
Soprintendenza arricchiscono la nostra conoscenza sulla storia di Bononia
(la Bologna romana) e dei suoi abitanti durante il periodo compreso tra la tarda
età repubblicana e la prima età imperiale (fine I secolo a.C. - I secolo d.C.).
Sono pertinenti a monumenti funerari di tipologia omogenea: si tratta infatti, per
la maggior parte, di stele in arenaria dalla sommità arrotondata che ci
restituiscono i nomi dei cittadini di Bononia con i loro rapporti
familiari e il loro status sociale, oltre a documentare nel dettaglio
l’estensione del monumento sepolcrale e, talvolta, a tramandare il nome di chi
ne curò la costruzione.
Nel rispetto della legislazione romana, che fin dalle leggi delle Dodici Tavole
(metà V secolo a.C.) vietava di seppellire i defunti all’interno del perimetro
urbano, le stele sono state rinvenute al di fuori del centro cittadino, in
località come Arcoveggio e Santa Viola, lungo i principali assi viari, quali la
via Emilia (nei due tronconi di levante e di ponente), e nei pressi della strada
per Ferrara, fuori Porta Galliera. Alcuni dei cippi provenienti dall’area di
Santa Viola, erano stati reimpiegati in età tardo-antica in occasione della
costruzione del cosiddetto “muro del Reno”, un’opera di irreggimentazione delle
acque del fiume (una sorta di diga) che riutilizzava una cospicua quantità di
stele della necropoli situata lungo la via Emilia e che fu oggetto di scavo a
partire dalla fine del XIX secolo (1894) ad opera di Edoardo Brizio.
L’arrivo delle stele nei locali della Soprintendenza si colloca in momenti
diversi e scandisce spesso la storia stessa dell’edificio. Uno dei primi
monumenti ad esservi trasportato, ad esempio, fu la stele eretta in memoria di
Titus Eborellius, che venne alla luce in maniera fortuita il 15
aprile del 1929 durante i lavori nella cantina di un privato cittadino in via
Carracci, e fu quindi trasportata nel cortile della Regia Soprintendenza alle
Antichità, da poco trasferitasi in via Belle Arti. Altri monumenti furono invece
scoperti e trasportati in Soprintendenza nel 1930 in seguito a scavi condotti
nella località Due Madonne, altri ancora alla fine degli anni ’60.
Tra le stele di particolare rilievo, si segnala quella del già citato Titus
Eborellius (cortile, lato ovest, n. 8 della pianta), cittadino
bolognese di origini liguri, come tradisce l’etimologia del suo gentilizio,
riconducibile a un tema lessicale di origine celtica. Costui, come tutti i
cittadini di Bononia, era registrato in una delle trentacinque tribù previste
dall’ordinamento amministrativo romano, la Lemonia. Le tribù, istituite
progressivamente tra la fine del VI secolo a.C. e il 241 a.C., si configuravano
come una sorta di distretti territoriali, in grado di assicurare lo svolgimento
di operazioni complesse, ma essenziali per il funzionamento dello Stato, quali
il censimento, la riscossione dei tributi, la leva e il voto. L’appartenenza a
uno di questi distretti qualificava dunque l’individuo come civis Romanus
e ne consentiva la partecipazione ai diritti e ai doveri sanciti
dall’ordinamento istituzionale. Da notare che Titus Eborellius costruisce
il monumento funerario per sé, per tre liberti e per la sua concubina, Benigna,
secondo la tradizione romana che faceva del concubinato un istituto a tutti gli
effetti, atto a regolare la convivenza tra un uomo e una donna laddove non
poteva sussistere un vincolo matrimoniale o per impossibilità di una delle due
parti (ad esempio per differenza di status sociale) o per assenza della
maritalis affectio, che era presupposto imprescindibile per il matrimonio
insieme alla convivenza. Alla moglie legittima era invece dedicato il cippo che
Caius Fricinius Primicenus fece innalzare quando era ancora in vita per
sé e per la consorte Aelania Parthenope (cortile, lato ovest, n. 11
della pianta).
Un vero e proprio nucleo familiare è invece documentato dalla stele rinvenuta
nel 1967 lungo la via Emilia, in località Bitone (cortile, lato ovest, n. 6
della pianta). L’identità dei gentilizi e dei prenomi maschili ci permette di
affermare che ci troviamo di fronte a una famiglia composta da sei membri. Ne
conosciamo la madre, Pontia Tertia (ingenua, ossia di nascita libera) che
aveva sposato il liberto Eron, quando questi si trovava ancora in
condizione servile. Per questo motivo, i tre figli nati prima dell’affrancamento
erano considerati illegittimi, come si desume dalla formula onomastica che
ricorre al patronimico Spurius (spesso utilizzato da coloro che non erano
stati riconosciuti dal padre naturale per simulare una condizione ingenua
fittizia). Il gentilizio segnala la loro appartenenza alla gens Accia, peraltro
scarsamente attestata in Emilia. Due dei figli, Titus Faustus e Accia
Paulla, risultano già deceduti al momento della costruzione del monumento
funerario: accanto ai loro nomi, infatti, è inciso un simbolo identificabile con
la lettera theta dell’alfabeto greco (detta littera nigra o theta nigrum),
iniziale del termine greco thànatos (morte), che può tradursi come obitus
(deceduto).
Le due stele rinvenute in località Arcoveggio (cortile, lato sud n. 2 e n. 3
della pianta) costituiscono un altro esempio di sepoltura destinata a più
individui, in questo caso liberti. Si tratta di Lucius Licinius Flavius e
Lucius Flavius Hilario che, come si deduce dall’identità del gentilizio
Flavius, furono tutti liberti dello stesso patrono Lucius Flavius Stratio,
e per questo ebbero sepoltura comune. Il testo dell’iscrizione tramanda anche il
nome di colui che dedicò la stele, il liberto Lucius Flavius Virillio e
specifica l’esatta estensione dell’area occupata dal monumento, pari a venti
piedi quadrati (poco meno di 2 mq.), quindi non particolarmente ampia. Anche
l’altra stele dell’Arcoveggio era destinata a una sepoltura plurima, per tre
defunti di cui ignoriamo i nomi, ma per un sepolcro di dimensioni più ampie,
pari a centoquaranta piedi quadrati (circa 12 mq.). La menzione delle dimensioni
dell’area funeraria era prassi assai diffusa, soprattutto nella prima età
imperiale, e ne troviamo più di una testimonianza nelle stele rinvenute fuori
porta Galliera e Santa Viola (cortile, lato sud, n. 1 della pianta),
quest’ultima ancora eretta in memoria di un liberto. Il testo dell’iscrizione
specifica l’estensione in piedi quadrati ricorrendo alle formule in fronte e in
agro che indicavano, rispettivamente, la distanza del monumento rispetto alla
strada e alla campagna.
Mappa dei reperti conservati nel cortile di Palazzo Ancarano, Via Belle Arti 52
(elaborazione grafica di
Rossana Gabusi)
Altri reperti esposti lungo lo scalone d’accesso e al primo piano di Palazzo
Ancarano (iscrizioni, elementi architettonici, dolii, anfore, mosaici, intonaci)
di Claudia Tempesta,
Archeologa SBAER
I dolii (contenitori utilizzati per conservare granaglie o legumi, ma
impiegati nella fase finale del villanoviano anche per ospitare sepolture)
esposti lungo la scala e nel corridoio del primo piano del palazzo provengono da
scavi effettuati a Piazza Azzarita e a Piazza VIII Agosto, rispettivamente nel
1994-1996 e nel 1998-1999, per la costruzione di parcheggi interrati. I dolii,
in ceramica d’impasto di colore rosso scuro, sono stati ricomposti dai
restauratori a partire dai numerosissimi frammenti rinvenuti all’interno degli
scavi.
Gli scavi di Piazza Azzarita e di Piazza VIII Agosto, nel settore settentrionale
del centro cittadino, hanno messo in luce il limite dell’abitato villanoviano ed
orientalizzante, caratterizzato dalla presenza di strutture di tipo artigianale
o utilitario (tettoie, pozzi, forni, siloi, fosse di scarico) e dalla presenza
di materiali (frammenti ceramici, fibule in bronzo, punte di freccia, scorie
metalliche) databili al VIII-VII secolo a.C., ma soprattutto il complesso
sistema di cinta, formato da aggeri, fossati e palizzate, oltre il quale si
estendeva una vasta necropoli con sepolture (dapprima ad incinerazione e quindi
ad inumazione) databili tra la fine dell’VIII e la fine del VI secolo a.C.
I dolii costituiscono dunque una testimonianza della fase cruciale che porta
alla nascita della città attraverso la formazione di un grande insediamento dai
caratteri proto-urbani, dotato di strutture abitative ed artigianali, delimitato
da un complesso sistema difensivo e circondato da vaste necropoli.
Le anfore conservate nel corridoio del primo piano introducono alla fase romana
di Bologna e, in particolare, alle dinamiche di produzione e consumo che
connotano la città tra la tarda Repubblica e il primo Impero. I quattro
esemplari esposti, appartenenti al tipo classificato come Dressel 6 e destinati
a contenere il pregiato vino prodotto lungo le coste adriatiche tra il I secolo
a.C. e il I secolo d.C., provengono da un deposito ubicato lungo il perimetro
esterno della città antica, forse quello individuato nel corso degli sterri
effettuati tra la fine degli anni ’40 e l’inizio degli anni ’50 nell’area della
Stazione Centrale per la costruzione delle banchine e dei sottopassaggi
ferroviari.
Nell’area della Stazione come in altri contesti simili rinvenuti in aree diverse
della città, le anfore si presentavano integre o quasi integre ed erano disposte
ordinatamente in fila l’una accanto all’altra, talvolta sovrapposte in più
livelli; il numero e la varietà tipologica delle anfore individuate all’interno
di questi depositi o rinvenute in altri contesti coevi testimonia il dinamismo
commerciale di Bononia e l’elevata capacità produttiva del suo territorio tra
l’epoca tardo-repubblicana e la prima età imperiale. La funzione di questi
apprestamenti era probabilmente legata all’immagazzinamento, alla conservazione
e forse allo smercio delle derrate alimentari che provenivano dal territorio
agricolo circostante; tale ipotesi sembra confermata anche dall’ubicazione dei
luoghi di rinvenimento di tali depositi, generalmente collocati in
corrispondenza dell’antico suburbio al limite tra la campagna e la città, lungo
importanti assi viari, come quello che costituiva la prosecuzione del cardo
maximus (attuale Via Galliera) e coincideva forse con la Via Emilia Altinate
diretta a Padova.
Alla stessa fase, ma ad un contesto di tipo completamente diverso, appartiene il
lacerto di affresco conservato nel corridoio del primo piano accanto
all’ingresso della biblioteca. L’affresco, rinvenuto in frammenti e ricomposto
dai restauratori, proviene da un piccolo ambiente di passaggio della domus
rinvenuta in Via Testoni durante uno scavo effettuato nel 1994.
La domus, tra le più importanti finora individuate e scavate a Bologna, presenta
una continuità d’uso (seppur articolata in diverse fasi edilizie) dall’epoca
repubblicana al IV secolo d.C.: l’affresco, di partitura e decorazione piuttosto
semplice, appartiene alla fase di I secolo d.C. L’elemento più interessante è
però costituito dalla presenza di due graffiti che rappresentano due figure di
gladiatori: di costituzione robusta e a torso nudo, entrambi portano l’armamento
pesante tipico dei cosiddetti hoplomachi, ovvero l’elmo con cimiero e paranuca,
il cinturone (balteus), la fascia di cuoi intorno alla gamba (ocrea), la spada e
lo scudo (gladium e scutum).
I graffiti costituiscono probabilmente la più diretta ed immediata testimonianza
dell’interesse suscitato in città dall’organizzazione dei primi giochi
gladiatori a seguito della costruzione dell’anfiteatro, avvenuta (come ricorda
Tacito) nel 69 d.C. L’esatta ubicazione dell’anfiteatro non è stata finora
stabilita con certezza, ma il toponimo medievale della chiesa dedicata ai
protomartiri bolognesi Vitale ed Agricola suggerisce che l’edificio fosse
localizzato nello spicchio definito da Via di S. Vitale e Strada Maggiore: tale
ubicazione, nell’immediato suburbio, era funzionale a rendere agevole l’accesso
all’edificio sia dalla città sia dalla campagna e, al tempo stesso, ad evitare
che le congestioni e i disordini che potevano verificarsi a seguito del notevole
afflusso di pubblico potessero creare problemi all’interno del perimetro urbano.
Allo stesso ambito dell’affresco di Via Testoni, ovvero a quello dell’edilizia
privata, sono riconducibili i due frammenti pavimentali esposti nella sala di
ingresso della Soprintendenza: i due lacerti, appartenenti al medesimo
pavimento, sono stati rinvenuti tra le due guerre in occasione dei lavori di
costruzione della sede S.I.P. tra Via degli Albari e Via degli Albiroli, nel
pieno centro di Bologna.
Il pavimento è costituito da un tappeto in opus signinum con decorazioni a
mosaico ed inserti marmorei e da un riquadro centrale a mosaico decorato da
scaglie di marmi policromi ed inquadrato da una cornice a treccia. Tale
decorazione pavimentale è caratteristica dell’edilizia residenziale del primo
periodo imperiale, epoca in cui la struttura semplice e funzionale delle più
antiche abitazioni urbane cominciò ad evolversi verso forme architettoniche più
articolate e gli apparati decorativi divennero più raffinati e complessi. Tale
evoluzione, che caratterizza tutta l’edilizia privata della città romana, è la
conseguenza dell’incremento demografico e dello sviluppo insediativo che
interessarono Bononia a partire dall’età augustea, nonché del crescente
benessere economico di cui godettero le classi dirigenti cittadine nella prima
età imperiale.
Anche
quest’anno, per promuovere e valorizzare il Patrimonio culturale italiano, il
Ministero per i Beni e le Attività Culturali apre gratuitamente le porte di
musei, ville, monumenti, aree archeologiche, archivi e biblioteche statali, per
nove giorni, dal 14 al 22 aprile, su tutto il territorio nazionale.
La Settimana della Cultura, divenuta ormai una grande festa collettiva, offre un
ricco calendario di appuntamenti: mostre, convegni, aperture straordinarie,
laboratori didattici, visite guidate e concerti, che renderanno ancora più
speciale l’esperienza di tutti i visitatori.
Lo scopo fondamentale di questa iniziativa è quello di trasmettere l’amore per
l’arte e favorire nuove esperienze culturali attraverso la conoscenza
dell’immenso patrimonio italiano, grazie anche al coinvolgimento di altre
Istituzioni pubbliche e private, per una partecipazione estesa e capillare su
tutto il territorio.
“La cultura è di tutti: partecipa anche tu” è il tema conduttore che viene
ripetuto ormai da qualche anno per sottolineare l’universalità del nostro
patrimonio, unico e inimitabile, che il MiBAC mette a disposizione di tutti i
cittadini, proprio per favorire una maggiore conoscenza e per abituare il
pubblico a frequentare assiduamente i luoghi d’arte, passaggio necessario per
un’autentica crescita civile, sociale e culturale della nazione.