Porte aperte a Palazzo Ancarano in occasione della XIV Settimana della Cultura
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Ufficio stampa SBAER
15 marzo 2012

Archeologia a porte aperte
Visite guidate alle stele romane conservate nel Cortile d’Onore di Palazzo Ancarano, sede della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna
Via Belle Arti n. 52 a Bologna

lunedì 16 e giovedì 19 aprile 2012, dalle ore 10 alle 14
una ogni ora per max 20 persone

Iniziativa a cura dei Servizi Educativi della Soprintendenza Archeologia dell'Emilia-Romagna, con gli archeologi Paola Desantis, Laura Forte, Alberto Stignani e Claudia Tempesta

C’è Titus Eborellius con quella che oggi chiameremmo la sua famiglia allargata (la concubina Benigna, più tre liberti), c’è Caius Fricinius Primicenus e la moglie Aelania Parthenope, c’è un’intera famiglia di sei persone sepolta lungo la via Emilia, in località Bitone. Le epigrafi incise sulle stele tramandano non solo i nomi, le parentele e lo status sociale dei cittadini della Bologna romana, ma arricchiscono la conoscenza della storia di Bononia e dei suoi abitanti nel periodo che va dalla tarda età repubblicana alla prima età imperiale (fine I secolo a.C. - I secolo d.C.)
In occasione della XIV Settimana della Cultura, gli archeologi della Soprintendenza accolgono il pubblico nella propria sede di via Belle Arti 52, nel cortile del prestigioso palazzo che per un certo periodo ha ospitato il Collegio Ancarano, fondato nel 1414 per dare alloggio a giovani studenti di diritto civile e canonico.
Le visite guidate illustrano i diversi monumenti funerari di età romana provenienti dal territorio bolognese. Pur nella loro brevità, le epigrafi restituiscono molti elementi utili a ricostruire un tassello di vita cittadina, dimostrando anche come, dalla semplice indicazione del nome del defunto e della sua famiglia (gens) o da un modesto monumento funerario, si possano ricavare informazioni in grado di approfondire la conoscenza della storia antica.

Le visite guidate, per gruppi di max 20 persone per volta, iniziano alle 10 e proseguono con cadenza oraria fino alle 14

È gradita la prenotazione tel. 051223773 (lunedì-venerdì dalle 9 alle 15)
oppure via mail  laura.forte@beniculturali.it

clicca qui per scaricare i seguenti  pdf
Depliant informativo sui reperti e sul Palazzo Ancarano
Mappa monumenti cortile SBAER (realizzazione: Rossana Gabusi)
Mappe con elenco reperti e indicazione del luogo del ritrovamento (realizzazione: Alberto Stignani)

I reperti conservati all’interno di Palazzo Ancarano, aperto al pubblico in occasione della XIV Settimana della Cultura nell’ambito dell’iniziativa “Soprintendenza a porte aperte”, provengono da scavi archeologici effettuati a Bologna nel corso del XX secolo.
Nella loro varietà tipologica, cronologica e funzionale, i materiali esposti nel cortile, lungo lo scalone d’accesso e al primo piano di Palazzo Ancarano -iscrizioni, elementi architettonici, dolii, anfore, mosaici, intonaci- costituiscono altrettanti frammenti della storia di Bologna e restituiscono un quadro, vivido benché parziale, della vita quotidiana della città tra l’Età del Ferro e l’età romana.
Essi sono tuttavia anche la testimonianza materiale degli scavi che nell’arco di circa cinquanta anni hanno trasformato ampi settori della città, adeguandone la forma e la funzione alle esigenze del presente. I materiali rappresentano dunque anche il segno visibile della possibilità di contemperare le necessità della città attuale, che vive e si trasforma ogni giorno, con le esigenze della conoscenza, della conservazione e della valorizzazione del patrimonio archeologico, attraverso una mediazione costante che costituisce l’obiettivo e il significato più profondo del lavoro che, in stretta collaborazione con altri soggetti pubblici e privati, la Soprintendenza svolge quotidianamente.

Palazzo Ancarano, sede della Soprintendenza Archeologia dell'Emilia-Romagna
di Alberto Stignani, SBAER
Il Collegio Ancarano fu istituito a partire dagli anni '30 del XV secolo per volontà testamentaria di Pietro d’Ancarano (1414), lettore nello Studio bolognese; era nato per dare ospitalità agli studenti poveri di diritto civile e canonico, sia italiani che stranieri. Il Collegio sorse presso la residenza dell'Ancarano, in val d'Aposa, vicino alla parrocchia di San Martino della Croce dei Santi (chiesa, oggi scomparsa, che sorgeva nell'odierna via Val d'Aposa), e fu affidato al giuspatronato dell'Università.
Agli inizi del 1500 il Collegio fu dato in commenda al cardinal Alessandro Farnese, futuro papa Paolo III, e alla sua morte  rimase sotto il controllo dei Farnese di Parma, che vi mandavano gli studenti del proprio Stato. Quando don Carlo di Borbone, già duca di Parma, divenne sovrano a Napoli, indirizzò al collegio i giovani del Regno delle Due Sicilie.
Nel XVI secolo il collegio si trasferì in Borgo della Paglia (attuale via Belle Arti), e da qui fu poi trasferito nell'area dell'attuale piazza Cavour.
Nel 1627 fu avviata la costruzione del noviziato dei Gesuiti, con l'acquisizione di immobili all'interno di un vasto isolato che prospettava sull'attuale via Belle Arti. Il palazzo del Collegio fu così inglobato nel grande complesso che comprendeva il noviziato e, dal 1728, la chiesa di Sant'Ignazio, progettata da Alfonso Torreggiani (oggi aula magna dell'Accademia di Belle Arti).
Nel 1773 l'ordine gesuita fu soppresso da papa Clemente XIV (1705-1774) e i locali del noviziato furono per breve tempo affidati ai padri delle Missioni.
Nel 1804 la sede del noviziato accolse la nuova Accademia Nazionale di Belle Arti, la ex Accademia Clementina, presso cui furono depositate le opere d'arte provenienti dalle congregazioni religiose soppresse, che oggi costituiscono il patrimonio della Pinacoteca Nazionale e dell'Accademia.
Il cortile ospita dagli anni Trenta del secolo scorso (ovvero da quando la Soprintendenza per le Antichità è stata trasferita in questo edificio) alcuni monumenti funebri rinvenuti nel territorio comunale di Bologna durante scavi, anche casuali (è noto, ad esempio, il caso di una stele recuperata in una cantina privata). Si tratta di parti di colonna, frammenti architettonici, bacili in pietra e di una quindicina di stele, prevalentemente in arenaria

Le epigrafi dei monumenti funerari conservati nel cortile
di Laura Forte, Archeologa SBAER
Le epigrafi attualmente conservate ed esposte nel cortile della Soprintendenza arricchiscono la nostra conoscenza sulla storia di Bononia (la Bologna romana) e dei suoi abitanti durante il periodo compreso tra la tarda età repubblicana e la prima età imperiale (fine I secolo a.C. - I secolo d.C.). Sono pertinenti a monumenti funerari di tipologia omogenea: si tratta infatti, per la maggior parte, di stele in arenaria dalla sommità arrotondata che ci restituiscono i nomi dei cittadini di Bononia con i loro rapporti familiari e il loro status sociale, oltre a documentare nel dettaglio l’estensione del monumento sepolcrale e, talvolta, a tramandare il nome di chi ne curò la costruzione.
Nel rispetto della legislazione romana, che fin dalle leggi delle Dodici Tavole (metà V secolo a.C.) vietava di seppellire i defunti all’interno del perimetro urbano, le stele sono state rinvenute al di fuori del centro cittadino, in località come Arcoveggio e Santa Viola, lungo i principali assi viari, quali la via Emilia (nei due tronconi di levante e di ponente), e nei pressi della strada per Ferrara, fuori Porta Galliera. Alcuni dei cippi provenienti dall’area di Santa Viola, erano stati reimpiegati in età tardo-antica in occasione della costruzione del cosiddetto “muro del Reno”, un’opera di irreggimentazione delle acque del fiume (una sorta di diga) che riutilizzava una cospicua quantità di stele della necropoli situata lungo la via Emilia e che fu oggetto di scavo a partire dalla fine del XIX secolo (1894) ad opera di Edoardo Brizio.
L’arrivo delle stele nei locali della Soprintendenza si colloca in momenti diversi e scandisce spesso la storia stessa dell’edificio. Uno dei primi monumenti ad esservi trasportato, ad esempio, fu la stele eretta in memoria di Titus Eborellius, che venne alla luce in maniera fortuita il 15 aprile del 1929 durante i lavori nella cantina di un privato cittadino in via Carracci, e fu quindi trasportata nel cortile della Regia Soprintendenza alle Antichità, da poco trasferitasi in via Belle Arti. Altri monumenti furono invece scoperti e trasportati in Soprintendenza nel 1930 in seguito a scavi condotti nella località Due Madonne, altri ancora alla fine degli anni ’60.
Tra le stele di particolare rilievo, si segnala quella del già citato Titus Eborellius (cortile, lato ovest, n. 8 della pianta), cittadino bolognese di origini liguri, come tradisce l’etimologia del suo gentilizio, riconducibile a un tema lessicale di origine celtica. Costui, come tutti i cittadini di Bononia, era registrato in una delle trentacinque tribù previste dall’ordinamento amministrativo romano, la Lemonia. Le tribù, istituite progressivamente tra la fine del VI secolo a.C. e il 241 a.C., si configuravano come una sorta di distretti territoriali, in grado di assicurare lo svolgimento di operazioni complesse, ma essenziali per il funzionamento dello Stato, quali il censimento, la riscossione dei tributi, la leva e il voto. L’appartenenza a uno di questi distretti qualificava dunque l’individuo come civis Romanus e ne consentiva la partecipazione ai diritti e ai doveri sanciti dall’ordinamento istituzionale. Da notare che Titus Eborellius costruisce il monumento funerario per sé, per tre liberti e per la sua concubina, Benigna, secondo la tradizione romana che faceva del concubinato un istituto a tutti gli effetti, atto a regolare la convivenza tra un uomo e una donna laddove non poteva sussistere un vincolo matrimoniale o per impossibilità di una delle due parti (ad esempio per differenza di status sociale) o per assenza della maritalis affectio, che era presupposto imprescindibile per il matrimonio insieme alla convivenza. Alla moglie legittima era invece dedicato il cippo che Caius Fricinius Primicenus fece innalzare quando era ancora in vita per sé e per la consorte Aelania Parthenope (cortile, lato ovest, n. 11 della pianta).
Un vero e proprio nucleo familiare è invece documentato dalla stele rinvenuta nel 1967 lungo la via Emilia, in località Bitone (cortile, lato ovest, n. 6 della pianta). L’identità dei gentilizi e dei prenomi maschili ci permette di affermare che ci troviamo di fronte a una famiglia composta da sei membri. Ne conosciamo la madre, Pontia Tertia (ingenua, ossia di nascita libera) che aveva sposato il liberto Eron, quando questi si trovava ancora in condizione servile. Per questo motivo, i tre figli nati prima dell’affrancamento erano considerati illegittimi, come si desume dalla formula onomastica che ricorre al patronimico Spurius (spesso utilizzato da coloro che non erano stati riconosciuti dal padre naturale per simulare una condizione ingenua fittizia). Il gentilizio segnala la loro appartenenza alla gens Accia, peraltro scarsamente attestata in Emilia. Due dei figli, Titus Faustus e Accia Paulla, risultano già deceduti al momento della costruzione del monumento funerario: accanto ai loro nomi, infatti, è inciso un simbolo identificabile con la lettera theta dell’alfabeto greco (detta littera nigra o theta nigrum), iniziale del termine greco thànatos (morte), che può tradursi come obitus (deceduto).
Le due stele rinvenute in località Arcoveggio (cortile, lato sud n. 2 e n. 3 della pianta) costituiscono un altro esempio di sepoltura destinata a più individui, in questo caso liberti. Si tratta di Lucius Licinius Flavius e Lucius Flavius Hilario che, come si deduce dall’identità del gentilizio Flavius, furono tutti liberti dello stesso patrono Lucius Flavius Stratio, e per questo ebbero sepoltura comune. Il testo dell’iscrizione tramanda anche il nome di colui che dedicò la stele, il liberto Lucius Flavius Virillio e specifica l’esatta estensione dell’area occupata dal monumento, pari a venti piedi quadrati (poco meno di 2 mq.), quindi non particolarmente ampia. Anche l’altra stele dell’Arcoveggio era destinata a una sepoltura plurima, per tre defunti di cui ignoriamo i nomi, ma per un sepolcro di dimensioni più ampie, pari a centoquaranta piedi quadrati (circa 12 mq.). La menzione delle dimensioni dell’area funeraria era prassi assai diffusa, soprattutto nella prima età imperiale, e ne troviamo più di una testimonianza nelle stele rinvenute fuori porta Galliera e Santa Viola (cortile, lato sud, n. 1 della pianta), quest’ultima ancora eretta in memoria di un liberto. Il testo dell’iscrizione specifica l’estensione in piedi quadrati ricorrendo alle formule in fronte e in agro che indicavano, rispettivamente, la distanza del monumento rispetto alla strada e alla campagna.


Mappa dei reperti conservati nel cortile di Palazzo Ancarano, Via Belle Arti 52 (elaborazione grafica di Rossana Gabusi)

Altri reperti esposti lungo lo scalone d’accesso e al primo piano di Palazzo Ancarano (iscrizioni, elementi architettonici, dolii, anfore, mosaici, intonaci)
di Claudia Tempesta, Archeologa SBAER
I dolii (contenitori utilizzati per conservare granaglie o legumi, ma impiegati nella fase finale del villanoviano anche per ospitare sepolture) esposti lungo la scala e nel corridoio del primo piano del palazzo provengono da scavi effettuati a Piazza Azzarita e a Piazza VIII Agosto, rispettivamente nel 1994-1996 e nel 1998-1999, per la costruzione di parcheggi interrati. I dolii, in ceramica d’impasto di colore rosso scuro, sono stati ricomposti dai restauratori a partire dai numerosissimi frammenti rinvenuti all’interno degli scavi.
Gli scavi di Piazza Azzarita e di Piazza VIII Agosto, nel settore settentrionale del centro cittadino, hanno messo in luce il limite dell’abitato villanoviano ed orientalizzante, caratterizzato dalla presenza di strutture di tipo artigianale o utilitario (tettoie, pozzi, forni, siloi, fosse di scarico) e dalla presenza di materiali (frammenti ceramici, fibule in bronzo, punte di freccia, scorie metalliche) databili al VIII-VII secolo a.C., ma soprattutto il complesso sistema di cinta, formato da aggeri, fossati e palizzate, oltre il quale si estendeva una vasta necropoli con sepolture (dapprima ad incinerazione e quindi ad inumazione) databili tra la fine dell’VIII e la fine del VI secolo a.C.
I dolii costituiscono dunque una testimonianza della fase cruciale che porta alla nascita della città attraverso la formazione di un grande insediamento dai caratteri proto-urbani, dotato di strutture abitative ed artigianali, delimitato da un complesso sistema difensivo e circondato da vaste necropoli.
Le anfore conservate nel corridoio del primo piano introducono alla fase romana di Bologna e, in particolare, alle dinamiche di produzione e consumo che connotano la città tra la tarda Repubblica e il primo Impero. I quattro esemplari esposti, appartenenti al tipo classificato come Dressel 6 e destinati a contenere il pregiato vino prodotto lungo le coste adriatiche tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., provengono da un deposito ubicato lungo il perimetro esterno della città antica, forse quello individuato nel corso degli sterri effettuati tra la fine degli anni ’40 e l’inizio degli anni ’50 nell’area della Stazione Centrale per la costruzione delle banchine e dei sottopassaggi ferroviari.
Nell’area della Stazione come in altri contesti simili rinvenuti in aree diverse della città, le anfore si presentavano integre o quasi integre ed erano disposte ordinatamente in fila l’una accanto all’altra, talvolta sovrapposte in più livelli; il numero e la varietà tipologica delle anfore individuate all’interno di questi depositi o rinvenute in altri contesti coevi testimonia il dinamismo commerciale di Bononia e l’elevata capacità produttiva del suo territorio tra l’epoca tardo-repubblicana e la prima età imperiale. La funzione di questi apprestamenti era probabilmente legata all’immagazzinamento, alla conservazione e forse allo smercio delle derrate alimentari che provenivano dal territorio agricolo circostante; tale ipotesi sembra confermata anche dall’ubicazione dei luoghi di rinvenimento di tali depositi, generalmente collocati in corrispondenza dell’antico suburbio al limite tra la campagna e la città, lungo importanti assi viari, come quello che costituiva la prosecuzione del cardo maximus (attuale Via Galliera) e coincideva forse con la Via Emilia Altinate diretta a Padova.
Alla stessa fase, ma ad un contesto di tipo completamente diverso, appartiene il lacerto di affresco conservato nel corridoio del primo piano accanto all’ingresso della biblioteca. L’affresco, rinvenuto in frammenti e ricomposto dai restauratori, proviene da un piccolo ambiente di passaggio della domus rinvenuta in Via Testoni durante uno scavo effettuato nel 1994.
La domus, tra le più importanti finora individuate e scavate a Bologna, presenta una continuità d’uso (seppur articolata in diverse fasi edilizie) dall’epoca repubblicana al IV secolo d.C.: l’affresco, di partitura e decorazione piuttosto semplice, appartiene alla fase di I secolo d.C. L’elemento più interessante è però costituito dalla presenza di due graffiti che rappresentano due figure di gladiatori: di costituzione robusta e a torso nudo, entrambi portano l’armamento pesante tipico dei cosiddetti hoplomachi, ovvero l’elmo con cimiero e paranuca, il cinturone (balteus), la fascia di cuoi intorno alla gamba (ocrea), la spada e lo scudo (gladium e scutum).
I graffiti costituiscono probabilmente la più diretta ed immediata testimonianza dell’interesse suscitato in città dall’organizzazione dei primi giochi gladiatori a seguito della costruzione dell’anfiteatro, avvenuta (come ricorda Tacito) nel 69 d.C. L’esatta ubicazione dell’anfiteatro non è stata finora stabilita con certezza, ma il toponimo medievale della chiesa dedicata ai protomartiri bolognesi Vitale ed Agricola suggerisce che l’edificio fosse localizzato nello spicchio definito da Via di S. Vitale e Strada Maggiore: tale ubicazione, nell’immediato suburbio, era funzionale a rendere agevole l’accesso all’edificio sia dalla città sia dalla campagna e, al tempo stesso, ad evitare che le congestioni e i disordini che potevano verificarsi a seguito del notevole afflusso di pubblico potessero creare problemi all’interno del perimetro urbano.
Allo stesso ambito dell’affresco di Via Testoni, ovvero a quello dell’edilizia privata, sono riconducibili i due frammenti pavimentali esposti nella sala di ingresso della Soprintendenza: i due lacerti, appartenenti al medesimo pavimento, sono stati rinvenuti tra le due guerre in occasione dei lavori di costruzione della sede S.I.P. tra Via degli Albari e Via degli Albiroli, nel pieno centro di Bologna.
Il pavimento è costituito da un tappeto in opus signinum con decorazioni a mosaico ed inserti marmorei e da un riquadro centrale a mosaico decorato da scaglie di marmi policromi ed inquadrato da una cornice a treccia. Tale decorazione pavimentale è caratteristica dell’edilizia residenziale del primo periodo imperiale, epoca in cui la struttura semplice e funzionale delle più antiche abitazioni urbane cominciò ad evolversi verso forme architettoniche più articolate e gli apparati decorativi divennero più raffinati e complessi. Tale evoluzione, che caratterizza tutta l’edilizia privata della città romana, è la conseguenza dell’incremento demografico e dello sviluppo insediativo che interessarono Bononia a partire dall’età augustea, nonché del crescente benessere economico di cui godettero le classi dirigenti cittadine nella prima età imperiale.


Anche quest’anno, per promuovere e valorizzare il Patrimonio culturale italiano, il Ministero per i Beni e le Attività Culturali apre gratuitamente le porte di musei, ville, monumenti, aree archeologiche, archivi e biblioteche statali, per nove giorni, dal 14 al 22 aprile, su tutto il territorio nazionale.
La Settimana della Cultura, divenuta ormai una grande festa collettiva, offre un ricco calendario di appuntamenti: mostre, convegni, aperture straordinarie, laboratori didattici, visite guidate e concerti, che renderanno ancora più speciale l’esperienza di tutti i visitatori.
Lo scopo fondamentale di questa iniziativa è quello di trasmettere l’amore per l’arte e favorire nuove esperienze culturali attraverso la conoscenza dell’immenso patrimonio italiano, grazie anche al coinvolgimento di altre Istituzioni pubbliche e private, per una partecipazione estesa e capillare su tutto il territorio.
“La cultura è di tutti: partecipa anche tu” è il tema conduttore che viene ripetuto ormai da qualche anno per sottolineare l’universalità del nostro patrimonio, unico e inimitabile, che il MiBAC mette a disposizione di tutti i cittadini, proprio per favorire una maggiore conoscenza e per abituare il pubblico a frequentare assiduamente i luoghi d’arte, passaggio necessario per un’autentica crescita civile, sociale e culturale della nazione.