Palazzo Ancarano, Via Belle Arti 52, BOLOGNA
(già sede della Soprintendenza Archeologia dell'Emilia-Romagna)
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Il palazzo Ancarano
I monumenti nel Cortile d'Onore
I reperti lungo la scala e il corridoio
Aprile 1925: la nuova sede della Soprintendenza in Via Belle Arti
Breve storia della tutela

Lungo le pareti del cortile interno di Palazzo Ancarano sono esposti alcuni monumenti funebri rinvenuti nel territorio bolognesePalazzo Ancarano
Il Collegio Ancarano viene istituito nel 1415 per volontà testamentaria di Pietro d’Ancarano, lettore nello Studio bolognese, morto il 5 agosto di quell’anno (residente a Orvieto, la famiglia Farnese d’Ancarano è un ramo cadetto della famiglia Farnese).
Il collegio nasce per dare ospitalità a otto studenti poveri (pauperes et dociles) di diritto civile e canonico, sia italiani che stranieri, ed è certamente operante nel 1442 giacché tra i testimoni convocati a un processo figura un certo Goffredo de Metis, “habitans in Collegio olim bonae memoriae d. Petri de Ancharano”.
Il Collegio sorge presso la residenza dell'Ancarano, in val d'Aposa, presso la parrocchia di San Martino della Croce dei Santi (chiesa scomparsa nell'odierna via Val d'Aposa), ed è affidato al giuspatronato dell'Università.
Nel 1507, con la cacciata dei Bentivoglio, Bologna passa sotto lo Stato Pontificio che la governerà, con la sola interruzione del periodo Napoleonico (dal 1796 alla Restaurazione del 1815), per oltre tre secoli e mezzo, fino all’unità d’Italia.
Agli inizi del 1500 il Collegio viene dato in commenda al cardinal Alessandro Farnese, futuro papa Paolo III, rimanendo alla sua morte sotto il controllo dei Farnese di Parma, che vi mandano gli studenti del proprio Stato. Quando don Carlo di Borbone, già duca di Parma, diventa sovrano a Napoli, indirizza al collegio i giovani del Regno delle Due Sicilie.
Nel 1532 il collegio si trasferisce in Borgo della Paglia (attuale via Belle Arti), e da qui è poi trasferito nel 1739 a Palazzo Zanchini, nell'area dell'attuale piazza Cavour, dove rimane fino al 1780 quando viene abolito.
Nel 1627 viene avviata la costruzione del noviziato dei Gesuiti, con l'acquisizione di immobili all'interno di un vasto isolato che prospettava sull'attuale via Belle Arti. Il palazzo del Collegio è così inglobato nel grande complesso che comprendeva il noviziato e anche, dal 1728, la chiesa di Sant'Ignazio, progettata da Alfonso Torreggiani (oggi aula magna dell'Accademia di Belle Arti).
Nel 1773 l'ordine gesuita è soppresso da papa Clemente XIV (1705-1774) e i locali del noviziato sono per breve tempo affidati ai padri delle Missioni.
L'ingresso di Napoleone a Bologna nel giugno del 1796 interrompe per quasi un ventennio la dominazione pontificia. Nel 1803 lo spostamento dell'Università (rimasta l'unica del regno d'Italia con quella di Pavia) dal malandato e insufficiente Archiginnasio al palazzo dell'Istituto delle scienze, ricco di moderni gabinetti scientifici, accentua la specializzazione culturale di strada San Donato (oggi Via Zamboni), cui dà un ulteriore contributo la collocazione delle nuove Accademia di Belle Arti e Pinacoteca nel complesso già gesuitico di S. Ignazio, la sistemazione del Liceo Musicale in locali attigui alla Chiesa di S. Giacomo e il trasferimento dell'Orto Botanico da Porta S. Stefano al giardino della Viola. Nel 1814 in quest'area viene anche inaugurato un nuovo teatro di impostazione borghese, il Contavalli, esempio, come già l'Arena del Sole, di riutilizzazione delle proprietà monastiche soppresse
Nel 1804 la sede del noviziato accoglie la nuova Accademia Nazionale di Belle Arti (nata dalla soppressa Accademia Clementina), presso cui sono depositate le opere d'arte provenienti dalle congregazioni religiose soppresse, che oggi costituiscono il patrimonio della Pinacoteca Nazionale e dell'Accademia.

Pio Panfili, Pianta della città di Bologna (particolare)

Pio Panfili, Pianta della città di Bologna, 1760
(particolare dell'area di Porta Piera)

 

La pianta di Bologna redatta da Pio Panfili documenta l'assetto raggiunto dalla città nella seconda metà del Settecento.
Nel dettaglio qui a destra è evidenziata l'area di Porta Piera corrispondente all'attuale zona compresa tra le Vie Zamboni e Mascarella.
Lungo strada S. Donato la lettera Z indica Palazzo Poggi, sede dell'Istituto delle Scienze (con la Biblioteca e l'Accademia Clementina), poi diventato nel 1803 sede dell'Università.
Alla sua destra, leggermente in alto, è indicato l'edificio del teatro bibienesco, affacciato sulla corte del palazzo Bentivoglio (oggi Piazza Verdi). Il nuovo teatro pubblico di Antonio Galli detto il Bibiena viene costruito tra il 1756 e il 1763 sul guasto dei Bentivoglio
Lì vicino, presso il convento di S. Giacomo (indicato con il n. 1), trova posto in anni napoleonici il Liceo Musicale.
Subito sotto l'Istituto è il collegio gesuitico di S. Ignazio (n. 11) dove, dopo la sua soppressione, troveranno sede nel 1804 la Pinacoteca e l'Accademia di Belle Arti (quest'ultima, nel 1925, cederà alcuni locali alla Soprintendenza per le Antichità che, da allora, ha la propria sede in via Belle Arti 52).
Ancora più in basso, nell'area verde che circonda la palazzina bentivolesca della Viola (la piccola costruzione quadrata), sarà trasferito in quegli stessi anni l'Orto Botanico.

L'affollarsi in un breve spazio di tutte queste strutture documenta la creazione in questa parte della città di un quartiere di attività artistico-culturali di alto livello, una fisionomia che sarà accentuata in epoca napoleonica, costituendo ancora oggi uno dei casi più vistosi di specializzazione funzionale all'interno di Bologna

 

Alla fine del mese di aprile 1925 l'Accademia di Belle Arti cede alla Soprintendenza per le Antichità i locali dell'edificio dell'ex Collegio Ancarano; grazie a questa cessione la soprintendenza viene trasferita in via Belle Arti 52, dove si trova tuttora.
Da allora il cortile ospita alcuni monumenti funerari rinvenuti durante scavi, anche casuali: sono presenti parti di colonna, frammenti architettonici, bacili in pietra e una quindicina di stele, prevalentemente in arenaria.
(Alberto Stignani, SBAER)

I reperti conservati all’interno di Palazzo Ancarano provengono da scavi archeologici effettuati a Bologna nel corso del XX secolo.
Nella loro varietà tipologica, cronologica e funzionale, i materiali esposti nel cortile, lungo lo scalone d’accesso e al primo piano di Palazzo Ancarano -iscrizioni, elementi architettonici, dolii, anfore, mosaici, intonaci- costituiscono altrettanti frammenti della storia di Bologna e restituiscono un quadro vivido, benché parziale, della vita quotidiana della città tra l’Età del Ferro e l’età romana. Ma sono anche la testimonianza materiale degli scavi che nell’arco di circa cinquanta anni hanno trasformato ampi settori della città, adeguandone la forma e la funzione alle esigenze del presente. I materiali rappresentano dunque anche il segno visibile della possibilità di contemperare le necessità della città attuale, che vive e si trasforma ogni giorno, con le esigenze della conoscenza, della conservazione e della valorizzazione del patrimonio archeologico, attraverso una mediazione costante che costituisce l’obiettivo e il significato più profondo del lavoro che, in stretta collaborazione con altri soggetti pubblici e privati, la Soprintendenza svolge quotidianamente.

Le epigrafi dei monumenti funerari conservati nel cortile
(n.b. integrazioni e restauri effettuati nel 2016 hanno in parte modificato la distribuzione dei monumenti nel cortile e la loro consistenza)
Le epigrafi conservate ed esposte nel cortile della Soprintendenza arricchiscono la nostra conoscenza sulla storia di Bononia (la Bologna romana) e dei suoi abitanti durante il periodo compreso tra la tarda età repubblicana e la prima età imperiale (fine I secolo a.C. - I secolo d.C.). Sono pertinenti a monumenti funerari di tipologia omogenea: si tratta infatti, per la maggior parte, di stele in arenaria dalla sommità arrotondata che ci restituiscono i nomi dei cittadini di Bononia con i loro rapporti familiari e il loro status sociale, oltre a documentare nel dettaglio l’estensione del monumento sepolcrale e, talvolta, a tramandare il nome di chi ne curò la costruzione.
Pianta (per provenienza) delle stele esposte nel cortile, restaurate in convenzione con l'Accademia di Belle Arti di BolognaNel rispetto della legislazione romana, che fin dalle leggi delle Dodici Tavole (metà V secolo a.C.) vietava di seppellire i defunti all’interno del perimetro urbano, le stele sono state rinvenute al di fuori del centro cittadino, in località come Arcoveggio e Santa Viola, lungo i principali assi viari, quali la via Emilia (nei due tronconi di levante e di ponente), e nei pressi della strada per Ferrara, fuori Porta Galliera. Alcuni dei cippi provenienti dall’area di Santa Viola, erano stati reimpiegati in età tardo-antica in occasione della costruzione del cosiddetto “muro del Reno”, un’opera di irreggimentazione delle acque del fiume (una sorta di diga) che riutilizzava una cospicua quantità di stele della necropoli situata lungo la via Emilia e che fu oggetto di scavo a partire dalla fine del XIX secolo (1894) ad opera di Edoardo Brizio.
L’arrivo delle stele nei locali della Soprintendenza si colloca in momenti diversi e scandisce spesso la storia stessa dell’edificio. Uno dei primi monumenti ad esservi trasportato, ad esempio, fu la stele eretta in memoria di Titus Eborellius, che venne alla luce in maniera fortuita il 15 aprile del 1929 durante i lavori nella cantina di un privato cittadino in via Carracci, e fu quindi trasportata nel cortile della Regia Soprintendenza alle Antichità, da poco trasferitasi in via Belle Arti. Altri monumenti furono invece scoperti e trasportati in Soprintendenza nel 1930 in seguito a scavi condotti nella località Due Madonne, altri ancora alla fine degli anni ’60.
Tra le stele di particolare rilievo, si segnala quella del già citato Titus Eborellius (K), cittadino bolognese di origini liguri, come tradisce l’etimologia del suo gentilizio, riconducibile a un tema lessicale di origine celtica. Costui, come tutti i cittadini di Bononia, era registrato in una delle trentacinque tribù previste dall’ordinamento amministrativo romano, la Lemonia. Le tribù, istituite progressivamente tra la fine del VI secolo a.C. e il 241 a.C., si configuravano come una sorta di distretti territoriali, in grado di assicurare lo svolgimento di operazioni complesse, ma essenziali per il funzionamento dello Stato, quali il censimento, la riscossione dei tributi, la leva e il voto. L’appartenenza a uno di questi distretti qualificava dunque l’individuo come civis Romanus e ne consentiva la partecipazione ai diritti e ai doveri sanciti dall’ordinamento istituzionale. Da notare che Titus Eborellius costruisce il monumento funerario per sé, per tre liberti e per la sua concubina, Benigna, secondo la tradizione romana che faceva del concubinato un istituto a tutti gli effetti, atto a regolare la convivenza tra un uomo e una donna laddove non poteva sussistere un vincolo matrimoniale o per impossibilità di una delle due parti (ad esempio per differenza di status sociale) o per assenza della maritalis affectio, che era presupposto imprescindibile per il matrimonio insieme alla convivenza.
Alla moglie legittima era invece dedicato il cippo di provenienza ignota che Caius Fricinius Primicenus fece innalzare quando era ancora in vita per sé e per la consorte Aelania Parthenope (E).
Un vero e proprio nucleo familiare è invece documentato dalla stele rinvenuta nel 1967 lungo la via Emilia, in località Bitone (F). L’identità dei gentilizi e dei prenomi maschili ci permette di affermare che ci troviamo di fronte a una famiglia composta da sei membri. Ne conosciamo la madre, Pontia Tertia (ingenua, ossia di nascita libera) che aveva sposato il liberto Eron, quando questi si trovava ancora in condizione servile. Per questo motivo, i tre figli nati prima dell’affrancamento erano considerati illegittimi, come si desume dalla formula onomastica che ricorre al patronimico Spurius (spesso utilizzato da coloro che non erano stati riconosciuti dal padre naturale per simulare una condizione ingenua fittizia). Il gentilizio segnala la loro appartenenza alla gens Accia, peraltro scarsamente attestata in Emilia. Due dei figli, Titus Faustus e Accia Paulla, risultano già deceduti al momento della costruzione del monumento funerario: accanto ai loro nomi, infatti, è inciso un simbolo identificabile con la lettera theta dell’alfabeto greco (detta littera nigra o theta nigrum), iniziale del termine greco thànatos (morte), che può tradursi come obitus (deceduto).
Le due stele rinvenute in località Arcoveggio (C) costituiscono un altro esempio di sepoltura destinata a più individui, in questo caso liberti. Si tratta di Lucius Licinius Flavius e Lucius Flavius Hilario che, come si deduce dall’identità del gentilizio Flavius, furono tutti liberti dello stesso patrono Lucius Flavius Stratio, e per questo ebbero sepoltura comune. Il testo dell’iscrizione tramanda anche il nome di colui che dedicò la stele, il liberto Lucius Flavius Virillio e specifica l’esatta estensione dell’area occupata dal monumento, pari a venti piedi quadrati (poco meno di 2 mq.), quindi non particolarmente ampia. Anche l’altra stele dell’Arcoveggio era destinata a una sepoltura plurima, per tre defunti di cui ignoriamo i nomi, ma per un sepolcro di dimensioni più ampie, pari a centoquaranta piedi quadrati (circa 12 mq.). La menzione delle dimensioni dell’area funeraria era prassi assai diffusa, soprattutto nella prima età imperiale, e ne troviamo più di una testimonianza nelle stele rinvenute fuori porta Galliera e Santa Viola (A), quest’ultima ancora eretta in memoria di un liberto e la cui iscrizione specifica l’estensione in piedi quadrati del recinto funerario.
L'indicazione dei confini esatti del sepolcreto documentava il diritto di proprietà sul terreno ed evitava eventuali invasioni dell'area in epoca posteriore alla realizzazione del monumento considerato dagli antichi res sacra e come tale inviolabile e inalienabile in ogni sua parte. Poiché i sepolcreti erano in genere disposti lungo una strada, l'area sepolcrale veniva indicata ricorrendo alle formule in fronte, IN.FR oppure IN.F, e in agro, IN.AGR. oppure IN.A, (seguite dalla misura espressa in piedi) che indicavano, rispettivamente, la distanza del monumento rispetto alla strada e alla campagna.

Altri reperti esposti lungo lo scalone d’accesso e al primo piano di Palazzo Ancarano (iscrizioni, elementi architettonici, dolii, anfore, mosaici, intonaci)
I dolii (contenitori utilizzati per conservare granaglie o legumi, ma impiegati nella fase finale del villanoviano anche per ospitare sepolture) esposti lungo la scala e nel corridoio al primo piano del palazzo provengono da scavi effettuati a Piazza Azzarita e a Piazza VIII Agosto, rispettivamente nel 1994-1996 e nel 1998-1999, per la costruzione di parcheggi interrati. I dolii, in ceramica d’impasto di colore rosso scuro, sono stati ricomposti dai restauratori a partire dai numerosissimi frammenti rinvenuti all’interno degli scavi.
Gli scavi di Piazza Azzarita e di Piazza VIII Agosto, nel settore settentrionale del centro cittadino, hanno messo in luce il limite dell’abitato villanoviano ed orientalizzante, caratterizzato dalla presenza di strutture di tipo artigianale o utilitario (tettoie, pozzi, forni, siloi, fosse di scarico) e dalla presenza di materiali (frammenti ceramici, fibule in bronzo, punte di freccia, scorie metalliche) databili al VIII-VII secolo a.C., ma soprattutto il complesso sistema di cinta, formato da aggeri, fossati e palizzate, oltre il quale si estendeva una vasta necropoli con sepolture (dapprima ad incinerazione e quindi ad inumazione) databili tra la fine dell’VIII e la fine del VI secolo a.C.
I dolii costituiscono dunque una testimonianza della fase cruciale che porta alla nascita della città attraverso la formazione di un grande insediamento dai caratteri proto-urbani, dotato di strutture abitative ed artigianali, delimitato da un complesso sistema difensivo e circondato da vaste necropoli.
Le anfore esposte lungo le scale che conducono al primo piano introducono alla fase romana di Bologna e, in particolare, alle dinamiche di produzione e consumo che connotano la città tra la tarda Repubblica e il primo Impero. I quattro esemplari esposti, appartenenti al tipo classificato come Dressel 6 e destinati a contenere il pregiato vino prodotto lungo le coste adriatiche tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., provengono da un deposito ubicato lungo il perimetro esterno della città antica, forse quello individuato nel corso degli sterri effettuati tra la fine degli anni ’40 e l’inizio degli anni ’50 nell’area della Stazione Centrale per la costruzione delle banchine e dei sottopassaggi ferroviari.
Nell’area della Stazione come in altri contesti simili rinvenuti in aree diverse della città, le anfore si presentavano integre o quasi integre ed erano disposte ordinatamente in fila l’una accanto all’altra, talvolta sovrapposte in più livelli; il numero e la varietà tipologica delle anfore individuate all’interno di questi depositi o rinvenute in altri contesti coevi testimonia il dinamismo commerciale di Bononia e l’elevata capacità produttiva del suo territorio tra l’epoca tardo-repubblicana e la prima età imperiale. La funzione di questi apprestamenti era probabilmente legata all’immagazzinamento, alla conservazione e forse allo smercio delle derrate alimentari che provenivano dal territorio agricolo circostante; tale ipotesi sembra confermata anche dall’ubicazione dei luoghi di rinvenimento di tali depositi, generalmente collocati in corrispondenza dell’antico suburbio al limite tra la campagna e la città, lungo importanti assi viari, come quello che costituiva la prosecuzione del cardo maximus (attuale Via Galliera) e coincideva forse con la Via Emilia Altinate diretta a Padova.
Alla stessa fase, ma ad un contesto di tipo completamente diverso, appartiene il lacerto di affresco conservato nel corridoio del primo piano accanto all’ingresso della biblioteca. L’affresco, rinvenuto in frammenti e ricomposto dai restauratori, proviene da un piccolo ambiente di passaggio della domus rinvenuta in Via Testoni durante uno scavo effettuato nel 1994.
La domus, tra le più importanti finora individuate e scavate a Bologna, presenta una continuità d’uso (seppur articolata in diverse fasi edilizie) dall’epoca repubblicana al IV secolo d.C.: l’affresco, di partitura e decorazione piuttosto semplice, appartiene alla fase di I secolo d.C. L’elemento più interessante è però costituito dalla presenza di due graffiti che rappresentano due figure di gladiatori: di costituzione robusta e a torso nudo, entrambi portano l’armamento pesante tipico dei cosiddetti hoplomachi, ovvero l’elmo con cimiero e paranuca, il cinturone (balteus), la fascia di cuoi intorno alla gamba (ocrea), la spada e lo scudo (gladium e scutum).
I graffiti costituiscono probabilmente la più diretta ed immediata testimonianza dell’interesse suscitato in città dall’organizzazione dei primi giochi gladiatori a seguito della costruzione dell’anfiteatro, avvenuta (come ricorda Tacito) nel 69 d.C. L’esatta ubicazione dell’anfiteatro non è stata finora stabilita con certezza, ma il toponimo medievale della chiesa dedicata ai protomartiri bolognesi Vitale ed Agricola suggerisce che l’edificio fosse localizzato nello spicchio definito da Via di S. Vitale e Strada Maggiore: tale ubicazione, nell’immediato suburbio, era funzionale a rendere agevole l’accesso all’edificio sia dalla città sia dalla campagna e, al tempo stesso, ad evitare che le congestioni e i disordini che potevano verificarsi a seguito del notevole afflusso di pubblico potessero creare problemi all’interno del perimetro urbano.
Allo stesso ambito dell’affresco di Via Testoni, ovvero a quello dell’edilizia privata, sono riconducibili i due frammenti pavimentali esposti nella sala di ingresso della Soprintendenza: i due lacerti, appartenenti al medesimo pavimento, sono stati rinvenuti tra le due guerre in occasione dei lavori di costruzione della sede S.I.P. tra Via degli Albari e Via degli Albiroli, nel pieno centro di Bologna.
Il pavimento è costituito da un tappeto in opus signinum con decorazioni a mosaico ed inserti marmorei e da un riquadro centrale a mosaico decorato da scaglie di marmi policromi ed inquadrato da una cornice a treccia. Tale decorazione pavimentale è caratteristica dell’edilizia residenziale del primo periodo imperiale, epoca in cui la struttura semplice e funzionale delle più antiche abitazioni urbane cominciò ad evolversi verso forme architettoniche più articolate e gli apparati decorativi divennero più raffinati e complessi. Tale evoluzione, che caratterizza tutta l’edilizia privata della città romana, è la conseguenza dell’incremento demografico e dello sviluppo insediativo che interessarono Bononia a partire dall’età augustea, nonché del crescente benessere economico di cui godettero le classi dirigenti cittadine nella prima età imperiale.


Aprile 1925: la nuova sede della Soprintendenza alle Antichità in Palazzo Ancarano
Istituite nel 1904 (Regio Decreto n. 431 del 17 luglio), le Soprintendenze ereditano le funzioni degli Uffici regionali per la conservazione dei monumenti, istituiti nel 1890. Non passa nemmeno un ventennio che arriva la prima riforma: il Regio Decreto del 31 dicembre 1923 le riduce da 47 a 25, fa sparire quelle ai monumenti e privilegia il criterio della competenza regionale. Le Soprintendenze diventano o uniche (per ciascuna circoscrizione), oppure distinte in Soprintendenze alle Antichità (con compiti di tutela degli interessi archeologici e di direzione e amministrazione di monumenti classici, scavi e musei archeologici dello Stato compresi nella loro circoscrizione) e Soprintendenze all'Arte Medievale e Moderna.
La funzione di Soprintendente, che prima era per incarico, entra nel ruolo organico del Ministero (articolo 18) e l'assunzione mediante concorsi locali per il personale direttivo, ispettivo e tecnico, è sostituita dal sistema dei concorsi nazionali. Le Soprintendenze alle Antichità diventano 8 (articolo 4) e, tra queste, la Soprintendenza alle Antichità dell'Emilia Romagna con sede a Bologna.
Incentrando la tutela nell’ambito della giurisdizione statale, il RD del 1923 liberava di fatto i soprintendenti da altri impegni, primo fra tutti quello universitario.
Il 19 settembre 1924 Salvatore Aurigemma è nominato titolare della Soprintendenza alle Antichità dell’Emilia Romagna. Prende le consegne dell’ufficio dal conte Malaguzzi Valeri che, per ragioni di utilità pratica, dal 1921 dirigeva nominalmente anche gli scavi dalla sua sede della Soprintendenza alle Gallerie.
Il momento e la situazione sono dei più complessi: si tratta di creare il nuovo istituto in un panorama dove le funzioni di responsabile ministeriale degli scavi nonché di Direttore del Museo Civico si erano cumulate nelle mani del titolare della cattedra di Archeologia, Brizio prima e successivamente, fino al 1920, Ghirardini (morto il 10 giugno 1920).
Nel 1921 era stato nominato Direttore del Museo Civico (quindi di tutti i musei ma non segnatamente di quello archeologico) Pericle Ducati, che aveva anche la cattedra di Archeologia ma non la nomina di responsabile ministeriale degli scavi (che però di fatto aveva avocato a sé nelle more della riforma in fieri). Erano gli anni in cui il fascismo stava riorganizzando il Ministero secondo un modello fortemente centralizzato e in quest’ottica, nonostante l’aperta adesione manifestata da Ducati, il regime preferì nominare soprintendente Aurigemma, ricollegato alla tradizione liberale dello Stato e formalmente già inquadrato nei ruoli dell’amministrazione.
La separazione istituzionale tra il museo e la nuova soprintendenza archeologica pose subito il problema della successione a Pericle Ducati, di fatto referente unico per l’archeologia bolognese.
Aurigemma doveva costituire un organismo nuovo, non solo con una propria fisionomia ma tutto da organizzare, laboratorio, restauri, biblioteca, archivio disegni e fotografico. Ma la creazione di questo nuovo ufficio, pienamente autonomo da Comune e Università, è tutt’altro che facile. Nei disegni del Ministero (della Pubblica Istruzione, quello dei Beni Culturali sarà istituito solo nel 1974), doveva essere il Museo di Bologna ad accogliere nella propria sede Soprintendenza e Soprintendente ma Ducati era di diverso avviso. In una lettera del 14 ottobre 1924, scrive Aurigemma al Ministro della Pubblica Istruzione: “il Direttore (Ducati) non è disposto ad accogliermi nei locali del Museo Civico perché questi sono di proprietà del Comune e lui è il solo direttore del museo mentre la soprintendenza aveva altrove la sua sede. Quanto ai funzionari della soprintendenza, ispettori, restauratori, assistenti, ecc. essi erano alloggiati nei locali del museo solo per cortesia e solo in quanto nominati”
Dotato di notevoli capacità organizzative e pratiche Aurigemma reperisce velocemente la nuova sede nei locali di Palazzo Ancarano, ex convento, in via Belle Arti 52 (dove si trova tuttora), ceduti dall’Accademia di Belle Arti. Il trasferimento avviene alla fine del mese di aprile 1925
Il suo primo anno di direzione della Soprintendenza è occupato principalmente dallo sforzo di definire le questioni ancora aperte con il Museo Civico; nell’accoglimento della proposta di lasciare tutto intero l’archivio storico al Museo Civico, pur di non smembrarlo, si riconosce la grande lungimiranza dello studioso, capace di superare i particolarismi e di far prevalere l’interesse scientifico. Nella nuova sede della Soprintendenza si spostano mobili, libri e tutto il materiale di proprietà dello Stato compresi i corredi provenienti dai primi scavi nella necropoli di Spina in Valle Trebba.
Appare chiaro fin dall’inizio che Aurigemma vuole raggiungere obiettivi precisi e mirati, e non accumulare incarichi di potere. Rinuncia alla dirigenza dell’Ufficio esportazione di Bologna dopo aver esaminato sistematicamente tutte le pratiche dell’ultimo anno e aver constatato come nessuna richiesta riguardasse beni archeologici; pur grato per l’onore conferitogli, ottiene che tale incarico venga attribuito, il 2 gennaio 1925, al Soprintendente all’Arte Medievale e Moderna.
Ma le difficoltà in cui si trova a operare, in particolare a Bologna, sono molteplici. In questa città, teatro di clamorose scoperte che avevano ribaltato e riscritto la protostoria italiana (dagli scavi di Gozzadini a Villanova di Castenaso alla scoperta degli Etruschi e dei Celti a Marzabotto), la Soprintendenza non aveva voce in capitolo né nei confronti del Comune né in quelli dell’Università. Ripetutamente, nelle relazioni inviate al Ministero, Aurigemma torna su questo tema; ancora nel 1935 lamenta: “Torna a grave danno della città in quanto la sede della Soprintendenza non dispone di sale espositive il che limita l’attività del Soprintendente e lo spinge a favorire, a detrimento del capoluogo, le collezioni archeologiche dei minori comuni della circoscrizione emiliana. Dal 1924 il Museo Civico di BO non si è arricchito di un solo oggetto e lo Stato ha anche per questo accolto la proposta di scegliere Ferrara come sede del materiale ceramico di Spina. Diminuisce la possibilità di efficienza della Soprintendenza in Bologna in quanto non dà al Soprintendente l’autorità necessaria, sia nei confronti del Capo del Comune, sia nei confronti di altre autorità, specie di quelle universitarie, nello svolgersi delle manifestazioni culturali di cui la città di Bologna è centro”.
Il 12 luglio 1926 le consegne fra i due uffici possono dirsi ultimate e la Soprintendenza cerca di indirizzare la ricerca oltre Bologna, che ormai dal 1924 era esclusa da quel fervore di interessi che dai tempi di Gozzadini, Brizio e Ghirardini ne avevano fatto un centro di primario significato per l’archeologia non solo italiana.
Negli anni che seguono ci sono anche altre occasioni di frizione con il potere centrale. Se l’indiscusso prestigio di cui godeva Aurigemma aveva fatto sì che il duce gli chiedesse nel 1938 di far parte del Comitato ordinatore della XXVII riunione degli scienziati d’Italia da tenersi a Bologna, è anche vero che in quello stesso anno Aurigemma è costretto a tornare sul conflitto, mai venuto meno, con il Museo Civico di Bologna e dunque con un esponente di spicco del regime quale era Pericle Ducati. Rifacendosi a un discorso sul riordinamento dei regi musei tenuto al Senato dal Ministro Bottai, Aurigemma scrive al Gabinetto del Ministro che il Regio Museo Archeologico di Bologna era tra quelli che più necessitavano di tale riordinamento; citava al riguardo un articolo di Ugo Ojetti, apparso sul «Corriere della Sera» del 13 aprile 1939 che criticava apertamente l’operato di Pericle Ducati.
Pochi mesi dopo, nel luglio del 1939, Aurigemma lascia Bologna e l’Emilia alla volta di Roma, destinato alla Soprintendenza alle Antichità dell’Etruria Meridionale istituita presso il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.
Al suo posto è designato Gioacchino Mancini.
Intanto dal 1 gennaio era stato promosso, per merito comparativo, Soprintendente di I classe. Se il trasferimento può sembrare frutto di una situazione contingente per il fatto che, dopo avere abitato ininterrottamente per quasi quindici anni nella casa di via Toscana, nel dicembre del 1938, quindi appena pochi mesi prima del trasferimento a Roma, la famiglia aveva spostato la sua residenza nel centro storico di Bologna, vicino al Tribunale, in via Loderingo degli Andalò, 2, è anche vero che Aurigemma in una lettera del 15 ottobre 1938 al Direttore Generale Lazzari aveva sollecitato il trasferimento a Roma per motivi di studio e di famiglia.
Da un punto di vista complessivo si può osservare come per l’archeologia dell’Emilia-Romagna, se Edoardo Brizio era stato lo scopritore della protostoria, Aurigemma lo fu della romanità, la cui vecchia tradizione di studi aveva subito una battuta d’arresto di fronte all’affermarsi delle ricerche preistoriche e protostoriche e per parecchio tempo era mancato, alle ricerche sull’età romana, un coordinamento che superasse il semplice interesse locale. Aurigemma era profondamente convinto che l’archeologo non ha completato la sua opera se, dopo aver portato alla luce i resti sepolti, non si preoccupa nel contempo della conservazione e della presentazione del frutto delle campagne di scavo. In quest’ottica, antesignana di quello che oggi si chiama valorizzazione, A. promosse, e per la maggior parte personalmente diresse, una vera e propria pianificazione museografica della regione. Così il Museo di Sarsina, grazie alle sue scoperte e al suo impegno, mutò da piccolo lapidario locale, quale l’avevano costituito il canonico Antonini e poi Santarelli, a museo di importanza sovranazionale; il museo comunale di Rimini, dalle tradizioni secolari, ebbe allora una sistemazione più confacente nel chiostro di San Francesco, poi distrutto dagli eventi dell’ultima guerra; l’antico Museo Nazionale di Parma offrì in forma nuova le collezioni di antichità romane. Le raccolte civiche di Forlì, Imola, Reggio Emilia, Piacenza accrebbero le loro collezioni con acquisizioni importanti. La volontà di mantenere un contatto il più diretto possibile fra le antichità e il loro contesto di provenienza prevalse sul concetto del museo centrale e l’Emilia-Romagna vide così confermata una tendenza alla valorizzazione delle identità locali che già si era affermata in questa regione alla vigilia dell’unità d’Italia. Se qualche critica è stata avanzata ad Aurigemma relativamente alla scelta di percorsi espositivi poco coinvolgenti e didattici l’obiezione appare francamente anacronistica. Se è vero che l’allestimento anni Trenta del Museo di Spina, per scegliere il più eclatante, si basava essenzialmente su una tassonomia tipologica e cronologica, che solo in pochi casi appariva rispettosa dell’integrità del contesto di scavo, non si deve però dimenticare che in questo campo si era appena usciti da un imperante positivismo, che puntava a esporre tutto per dovere di verità. Quanto mai lontani nello spirito dal nuovo imperativo categorico dei musei di oggi, che è comunicare, comunque sia, anche a costo di banalizzare, i percorsi espositivi realizzati da Aurigemma – che avevano essenzialmente lo scopo di presentare, senza pretendere di mediare o colmare baratri di conoscenze – appaiono anche oggi diretti e onesti. Se nessun museo né area archeologica può proiettarsi nel futuro senza restauri, l’intensa attività museografica di Aurigemma va considerata di pari passo alla considerazione altissima che dette al restauro, organizzando un laboratorio attrezzato e potenziato dall’opera di numerosi tecnici specializzati, che affrontarono e portarono a termine imponenti opere quali il restauro delle ceramiche spineti o dei monumenti e delle statue di Sarsina per citare solo alcuni dei più significativi.

Il Museo Civico di Bologna
Inaugurato il 25 settembre 1881 dopo un lungo e appassionato dibattito, l’istituto (luogo delle raccolte artistiche) rappresentò soprattutto per il settore archeologico preromano un modello ammirato e una delle più precoci e significative realizzazioni museografiche a livello non solo nazionale
L’attività di personalità come Gozzadini, Zannoni, Brizio e Ghirardini, con il coincidere di attribuzioni scientifiche, amministrative e di tutela, crearono le condizioni per una crescita impetuosa del Museo, garantendone la qualità attraverso la dottrina più rigorosa e l’incremento del patrimonio archeologico grazie ai reperti che emergevano a ritmi incalzanti dalla città e dal territorio.
Questo modello di gestione, che concentrava nelle mani della stessa persona i compiti di insegnante universitario, direttore della soprintendenza e direttore del Museo Civico, si incrina nel 1924 quando è istituito un ufficio autonomo per la direzione delle Antichità e delle Belle Arti.
Ciò porta all’esclusione del Museo dai compiti di tutela e ricerca sul terreno, con la conseguenza di arrestare l’accesso dei materiali e concludere, di fatto, il lungo processo di formazione delle raccolte.


Breve storia della tutela

La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica
Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione
Costituzione Italiana, art. 9

"Beati gli antichi che non avevano antichità" pare abbia detto Denis Diderot, in piena querelle settecentesca tra antichi e moderni: una battuta paradossale che ai giorni nostri sembra autorizzare i malintenzionati a considerare monumenti e resti archeologici nient'altro che un ingombro da eliminare, per dar via libera a un'indiscriminata espansione edilizia, dettata dall'ignoranza o dalla speculazione.
Ma 70 anni fa i padri costituenti sono per fortuna d'altro avviso. L’art. 9 sancisce due principi fondamentali: la promozione dello sviluppo di cultura e ricerca e la tutela del paesaggio (inteso nel senso più ampio di beni ambientali) e del patrimonio storico artistico.
La nostra costituzione dà quindi corpo a quanto cinque secoli prima Raffaello Sanzio, al tempo Prefetto alle antichità di Roma, aveva chiesto a papa Leone X. Correva l’anno 1519 quando, a quattro mani con l’amico Baldassarre Castiglione, Raffaello scrive una lettera al pontefice con cui chiede di provvedere alla ricognizione e salvaguardia dei monumenti della Roma antica. Da un lato il maestro lamenta le devastazioni barbariche che hanno compromesso irrimediabilmente la conservazione del patrimonio classico e d’altro celebra la continuità tra la Roma antica e quella moderna. È un documento straordinario sia per la consapevolezza del valore rappresentato dal recupero e la tutela dei monumenti sia per le modalità e i mezzi che propone per attuarlo. Quando Raffaello scrive non esiste ancora il concetto moderno di conservazione e tutela dei monumenti degli evi antichi. Raffaello si trova dunque nella necessità di codificare un patrimonio che non è per nulla classificato ma che è anzi disperso per i più diversi motivi.
La sua lettera anticipa in qualche modo il lavoro delle soprintendenze che hanno il compito di difendere e tutelare il patrimonio immenso che la storia ci ha lasciato. Se abbiamo ancora parte del nostro meraviglioso paesaggio e delle nostre incommensurabili bellezze artistiche lo dobbiamo a cinquecento anni di custodia, amore e passione degli italiani per la propria terra.
A partire dal XVII secolo circa, tutti gli antichi stati italiani si danno una disciplina giuridica per tutelare e conservare il patrimonio archeologico, artistico e storico: dal Granducato di Toscana alla Serenissima di Venezia, dallo Stato della Chiesa al Lombardo Veneto di Maria Teresa è tutto un fiorire di bandi, norme e provvedimenti a tutela dei beni culturali.
La prima preoccupazione di tutti i governi (con Roma ovviamente al primo posto) è il pericolo dell’esportazione incontrollata: estrazione e "estraregnazione" sono la voce più corposa delle varie leggi che tentano di elencare il maggior numero di “cose” e oggetti da salvare soprattutto derivati dal mondo antico (peraltro quel che restava, se già Raffaello descriveva Roma costruita con calce fatta “di statue e d’altri ornamenti antichi”)
Subito dopo l’estrazione il problema maggiore degli stati italiani sono gli scavi e i ritrovamenti, soprattutto in quei luoghi dov’era più probabile la sedimentazione dell’antico. Se Roma è ancora una volta la prima a darsi norme di comportamento in merito (addirittura dal XVI secolo), nel XVIII secolo sia il Reame di Napoli che il Granducato di Toscana reagiscono prontamente rispettivamente alle scoperte di Pompei e alla ripresa degli scavi a Ercolano, e all’incalzare dell’etruscologia degli scavi volterrani.
Una cura particolare è riservata al settore archivistico e documentario mentre va delineandosi anche nel campo del restauro una specie di codice di comportamento teso alla soluzione degli infiniti piccoli e grandi casi che costituiscono la quotidianità dell’opera di tutela e che vanno dal restauro vero e proprio alla bruciatura di una candela fissata male, dai danni dell’arredatore del venerdì santo alla decisione di trasferire un dipinto da un luogo a un altro.
Per dare corpo alle leggi ogni stato preunitario si dota o è costretto a creare l’organo consultivo delle commissioni: Milano nel 1745, Napoli e Parma nel 1755, Venezia nel 1773 e nel 1818, Roma nel 1802, Torino nel 1832 e Modena nel 1857. Queste commissioni rappresentano in nuce l’organo tecnico dal quale molti anni dopo lo stato italiano trarrà esempio per la formazione dapprima di un organismo centrale (la direzione generale) e poi degli organi periferici (le commissioni e in seguito le soprintendenze)
Seppure in ritardo lo Stato unitario italiano farà ricorso a quelle esperienze nelle sue leggi del 1902, 1909 e 1939 fino alla nascita del Ministero per i beni e le attività culturali nel 1974


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A. Emiliani, Napoleone dà inizio al "campus" ma lascia grandi vascelli vuoti, in Bologna - Centro Storico