Il
sarcofago Strozzi è una cassa marmorea con coperchio ad acroteri
collocata davanti alla facciata della chiesa di San Francesco a Ravenna,
inizialmente sul lato destro, ora su quello sinistro dell’ingresso.
Nel 2008 il sarcofago è stato aperto, divenendo oggetto di un intervento
di restauro. All'apertura dell'arca si è scoperto che la cassa conteneva
numerose ossa appartenenti a diversi corpi umani, nessuno dei quali in
connessione anatomica. Si è quindi provveduto ad asportare le ossa
conservate entro la cassa e ad analizzarle, avviando nel contempo una
ricerca finalizzata a ricostruire la storia dimenticata del monumento.
Il 22 aprile 2009 l’esito di tali ricerche è stato presentato nel corso di una giornata di studio svoltasi nella sede della Casa Matha di Ravenna, nell'ambito dell'XI Settimana della Cultura, dal titolo “IL SARCOFAGO STROZZI: STORIA DI UN MONUMENTO RAVENNATE”, con interventi di Maria Grazia Maioli, "Il sarcofago Strozzi", Paola Novara e Graziano Scandurra, "Martino Strozzi e il suo sarcofago", Ugo Capriani, "Il restauro del sarcofago Strozzi" e Stefano De Carolis ed Elisa Rastelli, "Gli scheletri della tomba Strozzi di Ravenna: prime indagini paleopatologiche".
Descrivendo il sarcofago, l'archeologa Maria Grazia Maioli
(Soprintendenza per i Beni Archeologici dell'Emilia Romagna) ha
chiarito che è composto da una cassa e da un coperchio fabbricati in due
epoche diverse, l'una antica, l'altro altomedievale.
Nei primi anni del Cinquecento i due pezzi furono assemblati per
contenere le spoglie di Martino Strozzi. Come chiarito nell'intervento
di Paola Novara e Graziano Scandurra, archeologi ravennati, Martino
Strozzi (o Astozi) visse nella seconda metà del Quattrocento e, oltre a
svolgere la professione notarile, coprì diverse cariche politiche. Ebbe
due mogli, la prima delle quali era la sorella del celebre uomo d'armi
Guidarello Guidarelli, che non dimenticò il cognato Martino, e il figlio
di lui Fabio Massimo, nel testamento dettato nei giorni di agonia che ne
precedettero la prematura morte.
Anzi Guidarello chiese espressamente che Martino fosse presente al suo
funerale incappucciato.
Senza dubbio le novità più interessanti emerse nel corso della
presentazione riguardano le condizioni del sarcofago,
restaurato da Ugo Capriani che ha brevemente illustrato lo
stato del monumento prima e dopo il suo intervento, e la natura delle
ossa ritrovate dentro l'arca.
Le indagini condotte dai medici riminesi Stefano De Carolis ed Elena
Rastelli hanno immediatamente riconosciuto i resti di almeno sette
individui adulti (di cui almeno uno morto in tarda età, visto lo stato
della dentatura) e di almeno quattro bambini.
Una presenza così massiccia di corpi può essere spiegata sia come la
scelta di impiegare l'arca anche per altri membri della famiglia
Strozzi, che ebbe discendenza fino ai primi anni del Settecento, sia
come il frutto di una contaminazione avvenuta nei primi anni
dell'Ottocento quando il sarcofago, che allora si trovava nella
piazzetta degli Ariani, fu momentaneamente svuotato. In quell'occasione
le spoglie contenute nell'arca Strozzi furono collocate in una delle
tombe terragne all'interno della chiesa dello Spirito Santo e, solo dopo
qualche tempo, riposte nuovamente nel sarcofago.
Non è da escludere che in quel frangente fossero ricollocati corpi non
pertinenti, confusi, trattandosi in ogni caso di spoglie di epoche
vicine a quelle della tomba Strozzi.
Quanto esposto durante la conferenza tenutasi alla Casa Matha è una sintesi di studi ancora in corso. Ulteriori ricerche, come ad esempio l'individuazione del DNA dei resti, permetteranno di riconoscere i corpi appartenenti alla stessa famiglia. Altre ricerche, quale l'analisi delle Visite Pastorali, vale a dire le descrizioni delle chiese della diocesi che seguivano le visite effettuate dagli arcivescovi nei secoli XVI-XVIII, permetteranno di scoprire se il sarcofago Strozzi fosse stato collocato ab origine nella piazzetta degli Ariani, dove è documentato sin dall'Ottocento.
Secondo il progetto diretto da Maria Grazia Maioli, archeologa
della Soprintendenza Archeologia dell'Emilia-Romagna, i cinque studiosi
(tra liberi professionisti, medici legali e
restauratori) hanno dato vita ad una ricerca che si è sviluppata in tre fasi: il restauro
diretto da Ugo Capriani, lo studio dell’iscrizione posta sul sarcofago da
parte della Dott.sa Paola Novara e del Dott. Graziano Scandurra, e
l’analisi delle ossa trovate al suo interno fatta dai Dott. Stefano De Carolis ed Elisa Rastelli.
Due i punti risultati più importanti: l’iscrizione che riporta il nome
di Martino Strozzi, notaio e giudice ordinario vissuto tra la fine del 1400 e
gli inizi del 1500, che, dalle analisi di alcuni testamenti trovati
nell’Archivio di Stato di Ravenna, risulta essere il marito di Dorotea
sorella di Guidarello Guidarelli, e il ritrovamento di una grossa
quantità di ossa umane.
Dopo le analisi di laboratorio sui resti umani si è appurato che questi
appartengono a dodici individui diversi. Questo ha portato gli studiosi
a porsi una domanda: come mai invece dei resti di un’unica persona ne
abbiamo dodici? Questo è probabilmente accaduto quando il sarcofago in
questione venne spostato sotto la giurisdizione del parroco della chiesa
di Santo Spirito in Piazza degli Ariani. Volendo provare a venderlo, il
parroco aveva spostato i resti di Strozzi in una fossa comune.
Quando però fu scoperto dovette rimettere le ossa al suo posto e ormai
impossibilitato a riconoscere i resti del defunto decise di buttare al
suo interno ossa varie alla rinfusa.
Va sottolineato il forte spirito di gruppo che si è creato tra i
cinque esperti e la passione scaturita durante lo svolgimento di un
progetto che, occorre evidenziarlo, è totalmente gratuito.
Tutto è iniziato quando l’archeologa Maria Grazia Maioli ha contattato
la dott.ssa Paola Novara per chiederle una collaborazione per
l’analisi dell’iscrizione; a quel punto la Novara si è rivolta al Dott.
Scandurra per una ricerca approfondita sulle origini di Martino Strozzi.
Il lavoro non ha beneficiato di alcun finanziamento ed è stato fatto da
ogni esperto in modo totalmente gratuito, un po’ per amore della
cultura, un po' per acquisire visibilità, perché in questo campo quando
si è liberi professionisti bisogna farsi conoscere con ricerche, studi e
pubblicazioni.
Gli studiosi sperano ancora di poter eseguire le analisi del DNA mentre si
stanno cercando i fondi per pubblicare quanto è già stato fatto.
"Un modo -dice Paola Novara- per fissare sulla carta il lavoro fatto
senza perdere alcun dato importante, nonostante la maggior parte degli
studiosi preferisca pubblicare una ricerca solo quando è terminata". E
anche per cercare di ottenere, attraverso questa pubblicazione,
ulteriori finanziamenti che consentano di procedere ad analoghi studi
sugli altri sarcofagi che si trovano all’interno dell’impianto
monumentale della Tomba di Dante.
In fin dei conti -si chiedono a Ravenna- qualcuno prima o poi dovrà pur
rispondere alla domanda dei turisti: ma dentro ai sarcofagi cosa c’è?