Il ritrovamento di un atelier medievale per la lavorazione della steatite a Groppallo, sul monte Castellaro, nel piacentino

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Panoramica di Groppallo (PC). L'abitato si sviluppa alle pendici del M. Castellaro (m 1005 slm).
Lo scavo archeologico si trova sulla cima, in prossimità delle antenne della telefonia mobile

L’abitato di Groppallo (m 945 slm), stazione climatica posta all’interno della vallecola Lavaiana (media valle del Nure, comune di Farini, Piacenza), abbraccia in lunghezza le pendici meridionali del Monte Castellaro (m 1005 slm), un’imponente rupe ofiolitica la cui presenza ha condizionato l’origine stessa del toponimo, derivato da groppo/altura. Fino alla metà del Novecento il paese conservava l’originario nome di Barsi, mentre il termine Groppallo era riservato al rilievo sovrastante, chiamato anche Castellaro per aver ospitato in epoca medievale un fortilizio.


La rupe del Castellaro di Groppallo (al centro della foto) e, sullo sfondo, l’alta valle del Nure

Il monte Castellaro
Poco ci è stato tramandato dalle fonti scritte sul castello medievale, che doveva occupare per intero la sommità pianeggiante della rupe, estesa all’incirca un ettaro e mezzo. Sembra che nel 1186 il fortilizio fosse di proprietà del Vescovo di Piacenza e che questi si riservasse il diritto di nomina del castellano. Più sicura è la notizia fornita dalla cronaca piacentina del Codagnello, dalla quale apprendiamo come nell’ottobre 1260 il maniero venisse espugnato e bruciato dal ghibellino Giovanni Luxardo, costringendo i nuovi proprietari, marchesi guelfi “da Gropallo”, a rifugiarsi a Genova, dove si sarebbero imparentati nel tempo con altre famiglie nobili quali i Doria, i Serra, i Centurione, i De Ferrari, offrendo al governo della città uomini d’arme e di governo. Nel 1339 la famiglia Nicelli ottenne dal duca di Milano Azzo Visconti la signoria del luogo, dietro pagamento annuo di una libbra di pepe “bello e buono”. Con alterne vicende questa famiglia riuscì a mantenere il possesso del castello fino al periodo rinascimentale; nel 1515 il castello subì gravi danni ad opera del conte Pietro Maria Scotti detto il “Buso”. Alla fine del XVI secolo sulle rovine del castello, che non verrà più ricordato dalle fonti, venne eretta la parrocchiale dedicata all’Assunta. Gli imponenti lavori di rifacimento della chiesa (1909 – 1915), eseguiti in concomitanza con altre opere quali la costruzione del grande cimitero e la realizzazione della grande piazza centrale, provocarono la distruzione pressoché integrale sia di quel che rimaneva del fortilizio, sia delle testimonianze ad esso precedenti, rappresentate da tracce di abitati arroccati dei periodi del Ferro ligure e dell’età del Bronzo. Alla metà degli anni Sessanta ampliamenti nell’area retrostante il cimitero portarono all’ulteriore demolizione dell’ala orientale del castello, distruzione che interessò anche un vano adibito ad atelier per la fabbricazione di vaghi di collana di steatite, trovandosi questo proprio in corrispondenza della carraia d’accesso al retro cimitero. Migliaia di scarti di lavorazione furono da allora sparsi sia nella strada sterrata sia lungo i sottostanti pendii del monte Castellaro, stratificandosi in giacitura secondaria assieme ad altri reperti, tutti testimonianza dei vari periodi protostorici e storici di occupazione della rupe. Agli inizi degli anni Ottanta lo scrivente ha segnalato i primi siti archeologici preistorici nei dintorni di Groppallo e, a partire dal 1992, anche l’area archeologica di Monte Castellaro (GHIRETTI 2000). Negli anni Novanta, grazie all’opera del Gruppo Archeologico Val Nure, molto materiale archeologico affiorante in superficie è stato sottratto sia ai fenomeni di scivolamento che ad intereventi distruttori. Nell’autunno 2006, in occasione del progetto di ulteriore allargamento dell’area retrostante il cimitero e a seguito di alcuni controlli eseguiti dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici in collaborazione con il Comune di Farini, è stato dato avvio allo scavo archeologico nell’area interessata dai lavori.

Il sito e lo scavo in corso
Con i saggi condotti il 17 ottobre 2006 è iniziata l’esplorazione preliminare d’accertamento, con cui veniva presto localizzata una porzione di deposito archeologico in situ all’estremità nord dell’area interessata dalla prevista costruzione, proprio lungo il margine perimetrale nord/est del Monte Castellaro (m 1003 slm). Una preesistente sezione stratigrafica lungo il lato Nord del cantiere indicava la presenza di diversi periodi di occupazione della cima, tra cui spiccava per importanza un livello superiore riferibile all’atelier medievale per la lavorazione di perline in steatite. Tra le unità stratigrafiche riconosciute in sezione al di sotto dell’atelier medievale - al momento tutte da indagare - si segnala un lembo di deposito archeologico in posto contenente ceramica dell’età del Bronzo.
Considerate importanza, estensione, nonché possibili rischi futuri delle strutture connesse all’atelier medievale, si è ritenuto opportuno estendere il cantiere archeologico su complessivi 40 mq, il doppio dell’area interessata dai lavori di ampliamento del cimitero.


Veduta generale dell'area di scavo (novembre 2006)

La prima operazione ha riguardato la rimozione del terreno di riporto sull’area archeologica (US 1), uno strato tra i 10 e i 30 cm contenente soprattutto macerie prodotte dall’allargamento ad est del cimitero (metà anni Sessanta), ma anche elementi architettonici (colonnotti) provenienti da tombe abbandonate del primo Novecento.
Sotto al rimaneggiato affiorava quasi ovunque uno strato di terreno bruno scuro, piuttosto friabile per la presenza di fine detrito ofiolitico, contenente manufatti in steatite in percentuale differente (US 2): poco abbondanti nei quadrati della metà ovest, nella quale lo strato si presentava di limitato spessore poiché inciso al tetto dalla carraia ricavata a lato del muro retrostante il cimitero; molto abbondanti nei quadrati della metà est, nei quali è da localizzarsi la vera e propria attività di officina.
Nel 1993 un esempio analogo di atelier, scoperto dallo scrivente in località Pareto – Costa di Sfrisareu (m 715 slm, comune di Bardi, 11 km in linea d’aria da Groppallo in direzione S/E) era stato oggetto di una breve campagna di saggi curata dagli archeologi genovesi dell’Iscum guidati da Enrico Giannichedda con la direzione di Tiziano Mannoni (BIAGINI, GHIRETTI, GIANNICHEDDA 1995). Pur riuscendo a definire l’intera catena operativa, la ricerca a Pareto non identificò strutture nè utensili di lavorazione, ed anche la datazione del contesto al periodo tra X e XII secolo - che oggi grazie al sito di Groppallo sappiamo attendibile - fu allora proposta sulla base del ritrovamento di un solo frammento di ceramica filettata. L’atelier di Groppallo, nel quale sono stati subito riconosciuti i manufatti della catena operativa visti anni prima a Pareto, ha mostrato, fin dagli inizi della ricerca, un consistente “salto di qualità”: l’esistenza di strutture murarie connesse all’officina, la presenza di oggetti in ferro identificabili come utensili per la tornitura delle perline nonché di frammenti ceramici e di pietra ollare associati ai manufatti in steatite. Il rinvenimento di due monete consente di inquadrare cronologicamente l’atelier tra gli inizi del XI secolo (denaro d’argento di Corrado II il Salico rinvenuto alla base del livello di officina e connesso alla spoliazione di un muro preesistente operata da coloro che impiantarono l’atelier) e la metà del XII (medaglia o mezzo denaro piacentino antico d’argento, del periodo di Corrado III, associato stratigraficamente ad un momento avanzato dell’attività di lavorazione della steatite). Quest’ultima moneta presenta anche un eccezionale valore numismatico in quanto unico esemplare finora conosciuto (informazione del dott. Marco Bazzini di Parma, che ha le monete in corso di studio).


Denaro d’argento di Corrado II il Salico (inizi del XI secolo)


Medaglia o mezzo denaro piacentino d’argento del periodo di Corrado III (metà del XII secolo)

Poco al momento possiamo dire sulle strutture murarie connesse all’officina: vi si riconoscono due fasi, entrambe con muri “a secco”, l’una coeva alla costituzione dell’impianto, l’altra riferibile ad un momento avanzato dell’attività. Il pavimento, per quel che ora è dato sapere, doveva essere costituito da piani d’accrescimento in terra battuta, conservati per 30 cm di potenza nel settore risparmiato dagli interventi recenti. Sia la struttura muraria d’impianto che quella in fase avanzata furono erette a spese di due preesistenti murature, ortogonali tra loro, edificate con abbondante malta e con orientamento diverso da quello della successiva officina. Al momento sembra plausibile che queste appartenessero ad una fase del castello di fine altomedievo, probabilmente di X secolo, di cui ci è noto il motivo dell’abbandono: un incendio devastante che ha rubefatto tutti i conci ofiolitici del paramento murario esterno e a cui è da riferire uno strato carbonioso (US 11), immediatamente anteriore all’orizzonte dello stesso atelier.


Sulla destra la struttura 3, parte di un muro in malta riferibile ad una fase del castello di X secolo, con i conci rubefatti per incendio. Si nota in appoggio una struttura muraria a secco, fase antica dell’atelier di lavorazione della steatite, coperta dallo strato d’officina (US 2). Nel punto in cui il livello d’atelier si sovrapponeva alla distrutta (e spogliata) struttura 3 è stata rinvenuta la moneta di Corrado II il Salico (emissione della zecca di Pavia databile 1026-1039)

Solo di recente, proprio a fianco della struttura muraria incendiata, è stata rinvenuta una terza moneta d’argento con vistosi segni di bruciatura: si tratta di un denaro di Ottone III emesso dalla zecca di Pavia tra 997 e 1002. Già da qualche tempo in circolazione (aspetto usurato) quest’ultima moneta ci offre un’indicazione molto precisa sull’evento-incendio: dopo il 1010/15 (usura moneta) e prima del 1027 (data d’emissione della moneta di Corrado II il Salico, presente nello strato che copriva, di qualche cm, la distruzione del muro). In quegli anni molto probabilmente il castello di Groppallo è proprietà del vescovo di Piacenza Sigifredo (nominato con decreto imperiale di Ottone III l’anno 997). Feudatari del Vescovo nel castello – sicuramente nella prima metà del XIII secolo ma forse anche prima – sono i da Gropallo prima nominati.


Veduta generale dell’area di scavo (febbraio 2007) con i resti delle strutture murarie del castello di X secolo

L’atelier: i materiali archeologici
L’inventario compilato alla fine di febbraio 2007 annovera circa 25.000 manufatti in steatite, riferibili per lo più alle fasi piena e tarda dell’attività di officina: l’indagine nella fase iniziale è al momento ancora da completare (altri 10.000 pezzi previsti, forse più). Di questi manufatti la maggior parte appartiene sia a scaglie naturali (portate qui da altro luogo, situato nelle vicinanze) che a piccole scaglie da lavorazione. Seguono gli sbozzi cilindrici poligonali, sagomati a coltello, certo una fase particolarmente delicata della lavorazione a giudicare dall’elevata percentuale di manufatti spezzati. Gli sbozzi sagomati venivano quindi forati con una punta leggermente conica, con foro d’ingresso mediamente di 7 mm e d’uscita di 5. Agli sbozzi sagomati/forati seguiva quindi la tornitura con lo scopo finale di ottenere grani dalla forma sferica, discoidale o biconica. Tipologie intermedie (grani troncoconici, cilindrici, emisferici ecc.) debbono ritenersi probabilmente fasi intermedie durante il processo di tornitura, rimaste tali in quanto spezzatisi e quindi finiti negli scarti di produzione. La presenza di manufatti finiti con altra funzione, ad esempio fusaiole, deve considerarsi occasionale, limitata a pochissimi esemplari.
La ceramica associata all’atelier è costituita unicamente da grezza da fuoco con filettatura esterna; meno frequenti sono i frammenti di pietra ollare, del tipo verde proveniente dalle Alpi centrali. Sono del tutto assenti ceramiche graffite arcaiche o protomaioliche, probabilmente un’ulteriore conferma di riferimento del contesto a tempi non più recenti del XII secolo.
Di particolare interesse, nello strato d’officina, la presenza di una cinquantina di piccoli strumenti in ferro, simili a chiodi piatti ma con la capocchia sagomata a punta (centrale o laterale), realizzati in modo da essere immanicati e fissati come sgorbia nelle fasi di tornitura. Un’apposita perizia a fini di ricostruzione delle fasi tecnologiche si attende dalle indagini affidate al prof. Giannichedda.
Un discorso a parte merita un frammento di perlina in pasta vitrea blu con decorazione bianca “ad occhi”, recuperata nel rimaneggiato, tipica di contesti di pieno altomedioevo, ad esempio longobardi. Forse si tratta di un indizio di quel periodo presente sul monte Castellaro non altrimenti evidenziato, pur non potendosi escluderne l’eventualità di un utilizzo ancora in contesti di X-XI secolo. Sulla destinazione finale delle perline in steatite il discorso rimane al momento ancora aperto: sicuramente una parte era impiegata come grani per rosario (tre esemplari di grani in steatite identici ai nostri si trovano su di un pavimento in terra battuta di XI secolo all’interno del monastero delle monache benedettine di S. Paolo in Parma). In tale periodo ancora non poteva trattarsi del rosario meditato diffuso dai domenicani a partire dal XIII secolo; era comunque la recita ripetuta e “contata” delle Ave Maria, la preghiera che, secondo l’antropologo Introvigne, originatasi nel VII secolo, proprio attorno all’anno Mille si sarebbe affermata nella forma attuale. Un’altra testimonianza religiosa della presenza delle perline di steatite si ha dagli scavi di Palazzo Sanvitale a Parma. Una grande quantità di questi grani, fortemente usurati (fatti scorrere come rosari?) è stata raccolta nei livelli di XII-XIII secolo riferibili al preesistente complesso di San Martino degli Zoppellari. Rosari a parte può ritenersi sicuro l’impiego dei nostri grani in altri usi non religiosi, in primis come normali grani di collana, verosimilmente da abbinare ad altri di minor peso (pasta vitrea, vetro, osso, ceramica).


Scaglie, schegge, sbozzi e vaghi di steatite rinvenuti nel corso dello scavo

Riferimenti bibliografici
BIAGINI M., GHIRETTI A., GIANNICHEDDA E. 1995, La lavorazione della Steatite: dalle ricognizioni allo scavo di un atelier medievale a Pareto di Bardi, Archeologia Medievale, XXII, pp. 147-190.
GHIRETTI A., 2000, L’età del Bronzo nelle Valli di Taro e Ceno (Appennino Parmense), Padusa, XXXVI, pp.31-84.

Crediti
Direzione scavo: Dott Angelo Ghiretti (www.angeloghirettistudio.it) e Dott.sa Monica Miari, Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia Romagna
Collaboratori: Giampiero Devoti, Fabio Fogliazza (Gruppo Archeologico Val Nure)
Committente: Comune di Farini
Analisi steatite: Prof. Enrico Giannichedda
Foto: Angelo Ghiretti