Ecco
una mostra che coniuga al rigore scientifico, elementi e spunti alla portata del più vasto pubblico dei non addetti ai lavori. Tema complesso, quello
della religiosità nel mondo romano. Tema che i curatori sono riusciti a trattare
in modo ampio e chiaro, offrendo -e proponendo- una serie di risposte attraverso
lo studio di una serie selezionata di oggetti "parlanti" e spesso curiosi. Non le vestigia dei templi
-con le loro
architetture monumentali, le iscrizioni votive dedicate pubblicamente nei
santuari, le grandi statue degli dei oggetto di venerazione- bensì un'attenta
scelta di quei materiali -comunque ispirati alla religione e
all’iconografia del pantheon romano- che accompagnavano i cittadini nella loro
vita quotidiana o che rappresentavano una stabile componente degli spazi
abitativi.
L'esposizione illustra, in nove sezioni, quei particolari aspetti della religiosità romana che si
legavano direttamente alla sfera privata e alle credenze individuali,
distinguendosi, spesso anche sensibilmente, dalle manifestazioni collettive dei
culti ufficiali.
È una documentazione assai varia, che a manufatti di alta qualità
artistica vede affiancarsi reperti di tipo ordinario, a volte di fattura assai
modesta; ciò che più interessa è in ogni caso il valore documentario di queste
testimonianze, essenziali per percepire alcuni dei più intimi tratti del credo
personale o per comprendere la familiarità che sussisteva con le numerose
raffigurazioni di divinità disseminate nelle città e nelle case.
Il quadro complessivo che viene offerto spazia dunque dalle ultime tracce della
devozione preromana ai piccoli simulacri riposti nei larari all’interno delle
domus, dalle nuove forme di culto tese a celebrare e legittimare il potere
imperiale, che trovano un significativo riflesso anche nel ricchissimo
repertorio di riferimenti religiosi presenti sulle monete, alle divinità giunte
dal lontano oriente durante l’età imperiale. Altre attestazioni assumono poi uno
speciale risalto dal punto di vista culturale e sociale, come nel caso dei
piccoli oggetti legati a pratiche popolari di tipo magico e scaramantico o delle
tante componenti di complemento domestico: arredi e suppellettili, anche di
grande pregio formale, in cui l’immagine della divinità assumeva soprattutto
valenze decorative o simboliche, spesso allusive alle gioie della vita e ai
piaceri del banchetto. Al tramontare del paganesimo si ricorda infine la
religione cristiana, la cui affermazione pure si manifestò attraverso la
comparsa di specifiche figurazioni su oggetti d’uso od ornamento personale e
sulle monete.
Al di là della loro rappresentatività documentaria, di valenza generale, i
materiali selezionati per la mostra provengono tutti dalla regione, così da
offrire una completa panoramica archeologica della religiosità privata cispadana
in età romana.
Una mostra, comunque, che al valore scientifico affianca notevoli spunti di
riflessione ed elementi di curiosità. Il tema della religione dei Romani è uno
dei più attraenti ma anche più complessi. Molti degli studiosi che in passato
hanno affrontato la questione sono stati influenzati, anche inconsapevolmente,
dai principi della religione moderna, in particolare da una concezione cristiana
che nulla a che fare con la sensibilità, il pensiero e la prassi dell’antico
paganesimo politeista, giungendo così a interpretazioni arbitrarie se non
fuorvianti. Tra i fattori che rendono impegnativo lo studio della religiosità
nel mondo romano ci sono
certamente le recondite componenti ideologiche, emotive e spirituali che in
misura maggiore o minore accompagnavano il rapporto dell’uomo con il
soprannaturale. C'è poi la particolare natura delle fonti letterarie che offrono
una grande massa di informazioni ma trattano quasi solo dei culti ufficiali e
della ritualità di tipo pubblico, facendo sporadici cenni alle manifestazioni
religiose private e popolari, ai contesti culturali più periferici o marginali e
alle dinamiche che nei secoli portarono all’arricchimento e alla
diversificazione del credo tradizionale. C'è infine l'ambiguità delle stesse
fonti archeologiche, perché se è vero che possiamo contare su numerose
testimonianze materiali di carattere architettonico, epigrafico, iconografico e
votivo, è anche vero che è assai difficile superare i limiti della loro
comprensione esteriore e tentarne una decodifica soggettiva che ci illumini
sull’atteggiamento dei singoli individui che con esse ebbero a che fare.
Come trarre indizi precisi e non ambigui sui fondamentali presupposti dei culti
e dei riti? Come sapere l'intimo sentimento dei fedeli che li praticavano o vi
assistevano? I reperti in mostra sussurrano storie piene di fascino e di magia.
Come
il tempietto miniaturistico con statuetta di Venere della fine del I sec. a.C.,
di norma esposto al Museo Civico "della Nave Romana" di Comacchio.
Realizzato con lamine di piombo, è dotato di un anello saldato al piano di
copertura che doveva consentire di appendere l’oggetto.
I quattro lati del podio, decorati da un fregio di bucrani alternati a festoni
entro una cornice dentellata, si innalzano su una coppia di peducci a zampa
leonina. Le colonne, due sulla fronte, cinque sui lati e tre sul retro,
scanalate nella parte superiore del fusto, poggiano su basi modanate e terminano
con capitelli ionici a doppia voluta. Sul podio, davanti alla cella, la
statuetta di un Cupido alato e con una torcia rovesciata nella mano destra, è
posta a custodia del simulacro di Venere collocato all’interno. La dea,
seminuda, è rappresentata in atto di trattenere con la mano destra la veste
ricadente al suolo e di sollevare il braccio sinistro al di sopra di un’erma su
piedistallo raffigurante Priapo in esibizione fallica.
Il tempietto, insieme ad altri cinque esemplari analoghi, faceva parte del
carico di una nave commerciale romana naufragata alla fine del I secolo a.C.
nella zona di Comacchio ed è stato recuperato nel 1980 durante i lavori di
drenaggio sul fondo del canale collettore di Valle Ponti. Per la tecnica di
lavorazione e per lo stile decorativo, si presume che i tempietti fossero
destinati all’acquisto da parte di devoti per essere esposti all’interno di
larari domestici.
Peraltro il larario domestico delle singole familiae romane ospitava senza
problemi le immagini di culto delle più disparate divinità, quelle tradizionali
e quelle nuove, a seconda delle particolari inclinazioni degli appartenenti alla
famiglia stessa. La religione romana pagana era estremamente permeabile e le varie
forme di culto non erano mai incompatibili tra di loro. Non era infrequente che un
sacerdote di un culto ufficiale di Roma, facesse nel suo privato un’offerta a una
nuova divinità oppure che un monumento sepolcrale rinvenuto in terra
occidentale, ritualmente dedicato agli Dei Mani -tradizionali interlocutori del
mondo dell’Oltretomba-, ospiti una scrittura corsiva, vergata a mano libera, che
saluta il defunto in greco, la lingua della liturgia delle divinità orientali.
Di sicuro, i culti orientali che si diffondono nell’impero romano soprattutto a
partire dalla seconda metà del I sec. d.C. presentano elementi di esotismo che
non potevano non colpire la fantasia popolare. Gli “dei venuti da lontano”,
principalmente da Oriente, hanno così tanto successo nelle province dell’impero
romano che il loro culto è attestato pressoché ovunque, nelle forme più
disparate.
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Il mondo romano mostra una grande familiarità con le immagini divine, dal grande complesso santuariale
al piccolo, semplice oggetto, magari da portare addosso come talismano. Il settore
più curioso di questa esposizione è forse quello dedicato alle connessioni tra religione e
superstizione, a quella linea di confine tra divinità e magia che nel mondo antico -ma anche in molte culture
contemporanee- è così sottile da diventare a
volte indistinguibile.
Ogni
divinità, dagli dei della religione ufficiale agli spiriti e demoni dei culti
familiari, senza distinzioni di importanza, ha caratteristiche e attributi
specifici, rigide formule per invocazioni e preghiere, precisi animali da
offrire e da sacrificare. Il rispetto di questi rituali rende certo il
risultato, sia che si tratti dei rapporti con le divinità celesti ed infernali,
sia che si miri a qualcosa di molto più semplice ma fondamentale nella vita
quotidiana (guarire da un raffreddore o da un mal di stomaco). I Romani hanno
infinite divinità, ciascuna con una funzione specifica: la nascita di un bambino
era controllata da dee che ne proteggevano il vagito, la poppata, le funzioni
corporali ed ogni altro atto, e non ci si doveva dimenticare di nessuna. C'erano
spiriti e genii per non far cagliare il latte, per cuocere bene il pane o per
accendere il fuoco. Per avere il loro appoggio bastava una piccola offerta o un
preciso gesto rituale o scaramantico, senza il quale però tutto sarebbe andato
male: una religione di tutti i giorni, spesso sconosciuta o appena citata dalle
fonti, ma che riempiva tutti i momenti, fra superstizione pratica e magia
spicciola.
La magia è il mezzo per mettersi in contatto con dei, spiriti e genii, e
chiedere loro favori oppure convincerli o costringerli ad ubbidire. La maggior
parte delle attività e gesti collegati alla magia e alla superstizione spicciola
erano opera dei singoli, gesti spesso automatici, come quello apotropaico contro
il malocchio, derivato dalla tradizione e dalle credenze popolari e comuni.
Quasi tutte le pratiche utilizzano la magia "simpatica". Si dà potere ad un
oggetto attraverso un rito e questo oggetto lo manterrà per sempre. Alcuni
materiali possiedono già in sé questi poteri, come le pietre preziose, raffinato
prodotto della natura che pare condensare al proprio interno le energie della
natura e dei pianeti: di pietra è formata la maggior parte degli amuleti e dei
talismani. Queste gemme magiche -cosiddette gemme gnostiche- sono amuleti che
favoriscono la buona sorte e la fortuna, cui si attribuisce proprietà di
guarigione e di difesa, di protezione da malattie e influssi maligni e che, per
la loro funzione, devono essere portate in modo ben visibile. Anche se il loro
potere è intrinseco, vengono di solito potenziate con incisioni di simboli,
immagini e iscrizioni il cui significato e collegamento simbolico è spesso
criptico; per il loro collegamento con le costellazioni e le posizioni dello
Zodiaco sono utilizzate anche a scopi divinatori. Tra le incisioni ricorrenti
troviamo le divinità e gli spiriti solari, nelle varianti di epoca medio e
tardoimperiale, dal dio Sole come Elios ai demoni di derivazione orientale, fra
i quali prevale il dio Gallo-Serpente (cui è attribuito il nome Abraxas) o il
dio egizio Cnubi. A questa categoria di oggetti appartiene la bellissima gemma
magica di forma ovale della fine II-III secolo d.C. (foto), in diaspro verde
scuro ed incisa su entrambe le facce, proveniente dal Museo Nazionale di
Ravenna. Sulla faccia maggiore l'immagine del dio Gallo-Serpente, un demone
solare con testa di gallo, tronco umano rivestito con corazza, gambe a forma di
coda di serpente ritorta e, in basso, l'iscrizione ARPACAS; sulla faccia minore
l'iscrizione IAW. L'immagine e le iscrizioni, cui era attribuito un valore
difensivo, rendono la gemma sicuramente magica soprattutto nei riguardi del
malocchio e delle magie negative in genere.
Gli amuleti
erano usati soprattutto con funzione profilattica, per proteggersi da
malattie e accidenti, sia casuali che provocati dagli uomini. Era considerata
opera di maleficio, ad esempio, la morte improvvisa che veniva attribuita a
Veneficium, una parola che non significa solo avvelenamento ma soprattutto
morte avvenuta per cause inesplicabili e che può quindi essere attribuita ad
opera di magia malefica. Il maleficio come tale, l’influenza negativa che può
anche portare ad esiti nefasti, può anche essere involontaria come nel caso del
Fascinum, che può essere causato anche solo da parole imprudenti, ma più
spesso da un sguardo maligno (cioè dal malocchio, l’oculus malignus).
Gli effetti del malocchio sono sempre tremendi e vanno dai disastri naturali
alle morti improvvise, dal far seccare le messi al far morire i neonati; la
maledizione può essere trasmessa con lo sguardo, con il fiato, con la voce o con
semplici gesti, ed era tradizionalmente attribuita a persone o popoli specifici
o a caratteristiche fisiche personali. La protezione dal Fascinum
avveniva in vari modi. Il più semplice era sputare tre volte per terra ma anche
effettuare con la mano il gesto apotropaico "della fica", consistente nel
chiuderla a pugno, serrando il pollice fra l’indice e il medio, uno dei simboli
più diffusi in assoluto. Per distrarre lo sguardo maligno i romani ricorrevano
ampiamente ad amuleti specifici, soprattutto di forma fallica. L’immagine del
fallo in erezione è considerata da molte culture un potentissimo elemento
propiziatorio. Nel mondo greco classico l’erma itifallica, di Hermes o di
Dioniso, difendeva con il suo potere propiziatorio le città, i templi, le case,
ed era collegata principalmente al culto dionisiaco; nel mondo romano il fallo è
associato al culto di Priapo, dio della fecondità, apportatore di felicità,
ricchezza e abbondanza. Per esercitare la loro funzione protettiva gli amuleti
personali dovevano essere portati ben visibili al collo oppure appesi o esposti
in case, botteghe o mezzi di trasporto (come l'amuleto della foto, generalmente
utilizzato appeso ai carri o inserito sopra una porta). La mostra illustra come,
sul tema, la fantasia dei Romani si sia esercitata al massimo, personalizzando e
trasformando il fallo in tutti i modi e le combinazioni possibili: unendolo ad
altri simboli apotropaici (come la testa di toro e di lupo, la mano che fa le
fiche, la lunula) oppure umanizzandolo (trasformato in guerriero o gladiatore,
dotato di ali e di attributi, fra i quali altri falli). Il dio Priapo è
una divinità familiare, glorioso simbolo di allegria e buona fortuna, difensore
dei confini e dei diritti, feroce in modo sarcastico con chi gli si oppone o
viola la sua protezione.