Gli studi compiuti da UniMORE e UniBO -spiegano ricercatori e docenti in un comunicato- hanno consentito di rivelare il sesso di un eccezionale ritrovamento, due individui ritrovati mano nella mano, avvenuto nel 2009 durante gli scavi in una necropoli tardo-antica di Modena.
Grazie a questo studio, si è scoperto che i due scheletri, subito ribattezzati dai media gli “Amanti di Modena”, appartengono a soggetti di sesso maschile. Per risalire al loro sesso è stata usata una tecnica semplice e innovativa, che permette di determinare il sesso di un individuo a partire dalle proteine contenute nello smalto dei suoi denti.
Il progetto di ricerca è stato condotto in collaborazione con i Musei Civici di Modena e la Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per la città metropolitana di Bologna e per le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara.
Gli “Amanti di Modena”, i due individui ritrovati mano nella mano nel 2009 durante gli scavi della necropoli tardo-antica (IV-VI secolo) di via Ciro Menotti a Modena, hanno meno segreti. Una tecnica semplice e innovativa ha permesso di determinare il loro sesso, a partire dalle proteine contenute nello smalto dei loro denti.
Gli
Amanti. Nel 2009 a Modena lungo viale Ciro Menotti, durante gli scavi
archeologici condotti dall’allora Soprintendenza per i Beni Archeologici
dell’Emilia-Romagna eseguiti per la costruzione di un edificio residenziale,
venne in luce un sepolcreto di età tardo-antica (IV-VI secolo) in cui era
collocata anche una tomba contente i due individui deposti nello stesso momento
con le mani intrecciate palmo a palmo. La notizia fece il giro del modo e i due
scheletri furono subito ribattezzati dal media come gli “Amanti di Modena”.
Nonostante la pessima conservazione delle ossa e la conseguente impossibilità di
una attribuzione certa in termini di sesso, si iniziò a parlare di un uomo e una
donna sepolti insieme, nell’atto di mostrare simbolicamente il loro amore
eterno. L’inaffidabilità delle analisi genetiche condotte, per via dello scarso
grado di conservazione dei resti, ha lasciato il mistero irrisolto, lasciando la
narrativa sugli amanti inalterata.
Dal 2014, in seguito ad un progetto di restauro e valorizzazione, la sepoltura è
visibile nelle sale del Museo Civico Archeologico Etnologico di Modena.
Un finale inaspettato. Grazie all’applicazione di una tecnica semplice
e innovativa che permette di determinare il sesso di un individuo a partire
dalle proteine contenute nello smalto dei suoi denti è stato finalmente
possibile determinare con certezza che gli individui fossero entrambi di sesso
maschile. La scoperta, inaspettata e rivoluzionaria, dal punto di vista
metodologico e per quanto riguarda la conoscenza circa le sepolture tardo
antiche, è il frutto degli sforzi di un team tutto italiano che comprende membri
del Dipartimento di Scienze Chimiche e Geologiche, Dipartimento di Scienze della
Vita, Centro Interdipartimentale Grandi Strumenti dell’Università di UniMORE e
del Dipartimento di Beni Culturali dell’Università di Bologna, nello specifico
del Laboratorio di Paleoantropologia e Osteoarcheologia diretto dal prof.
Stefano Benazzi. Il team, coordinato dal dott. Federico Lugli di Unibo,
comprendente la dott.ssa Giulia Di Rocco del Dipartimento di Scienze della Vita
di Unimore, ha analizzato in spettrometria di massa alcuni reperti dentali
attribuiti ai due “Amanti”, individuando specifiche proteine maschili in
entrambi gli individui. Il lavoro è stato pubblicato sulla prestigiosa rivista
Scientific Reports del gruppo Nature, e riguarda quello che - a tutti gli
effetti - è un caso unico a livello mondiale.
Nel prossimo autunno gli autori di questa importante ricerca unitamente
all’equipe di antropologi dell’Unibo e di archeologi della Soprintendenza e del
Museo Civico Archeologico di Modena presenteranno le scoperte in una conferenza
pubblica che si terrà a Modena presso le sale dei Musei Civici.
Nuove interpretazioni
“Con i dati attualmente disponibili – spiega il dott. Federico Lugli - non è
possibile comprendere il tipo di legame che intercorreva fra i due individui:
erano davvero amanti? O forse amici? È anche possibile che si trattasse di
parenti più o meno prossimi. Probabilmente questa tomba rappresenta un gesto
peculiare e personale dei due individui, piuttosto che una pratica ricorrente
della tarda antichità, ma poteva avere comunque un valore simbolico agli occhi
dei vivi, come in ogni pratica funeraria”.
I ricercatori Federico Lugli, Filippo Genovese e Giulia Di Rocco
Federico Lugli, PhD
Nato a Carpi (MO) nel 1990, è ricercatore postdoc presso il Dipartimento
di Beni Culturali dell’Università di Bologna (Campus di Ravenna). Dopo aver
ottenuto una laurea triennale in Beni Culturali e Ambientali (Università di
Modena e Reggio Emilia) e una laurea magistrale in Archeologia Preistorica
(Università di Ferrara), termina nel 2018 gli studi di dottorato presso il
Dipartimento di Scienze Chimiche e Geologiche (Università di Modena e Reggio
Emilia), specializzandosi in geochimica. I suoi interessi scientifici
comprendono l’evoluzione umana, la paleoantropologia, le scienze archeologiche e
la geochimica isotopica applicata. In particolare, la sua ricerca si occupa di
ricostruire lo stile di vita di uomini e animali vissuti nel passato tramite lo
studio chimico e biologico di resti ossei e dentali. Attualmente è parte del
team di ricerca del prof. Stefano Benazzi, recente vincitore di un progetto ERC,
il cui fine è quello di indagare il successo evolutivo di Homo sapiens a
discapito del cugino Homo neanderthalensis.
Giulia Di Rocco, PhD
Ricercatrice in Chimica Generale ed Inorganica presso il Dipartimento di
Scienze della Vita (Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia) dal 2008.
Docente presso il corso di Laurea Triennale in Scienze Biologiche ed il corso di
Laurea Magistrale in Biotecnologie Industriali della stessa università. Ha
ricevuto la laurea in Chimica presso l’Università di Modena e Reggio Emilia e,
dopo due periodi all’estero presso l’Universidade Nova de Lisboa (PT) e
l’Università di Leiden (NL) ha conseguito il titolo di Dottore di Ricerca in
Chimica nell 2005. I suoi interessi scientifici sono da sempre rivolti allo
studio delle proteine native e ricombinanti e all’applicazione di tecniche
chimico-fisiche e analitiche per indagare la loro struttura e funzionalità. In
tale ambito ha infatti pubblicato 40 articoli su riviste scientifiche
internazionali. Si occupa di tecniche del DNA ricombinante, Spettroscopia UV-vis,
FT-IR, MCD, Fluorescenza, FRET e BRET, biolettrochimica e Spettrometria di
massa.
Antonino Vazzana, PhD
Nato a Reggio Calabria, nel 1984 è ricercatore postdoc presso il
Dipartimento di Beni Culturali dell’Università di Bologna (Campus di Ravenna).
In seguito alla laurea triennale in Beni Archeologici e alla laurea magistrale
in Ricerca, documentazione e tutela dei beni archeologici (Facoltà di
Conservazione dei Beni Culturali, Università di Bologna), ha conseguito il
titolo di Dottorato di Ricerca nel 2019 con una tesi in Antropologia Fisica dal
titolo “Valutazione della variabilità biologica durante il periodo delle
migrazioni tardoantiche”. I suoi interessi scientifici comprendono
l’antropologia fisica, l’archeologia funeraria e la paleoantropologia. In tale
ambito ha infatti pubblicato diversi articoli su riviste scientifiche
internazionali. Si occupa, in particolar modo, di analisi delle distanze
biologiche tra popolazioni umane del passato, in particolare durante il periodo
tardoantico. È esperto di restauro virtuale di reperti scheletrici attraverso
l’impiego della Morfometria Geometrica.