« ...così chiamati per la lunghezza della barba,
mai toccata dal rasoio.
Infatti nella loro lingua lang significa lunga e bart barba »
Paolo Diacono, Historia Langobardorum
Incontrare
un guerriero longobardo doveva essere un’esperienza unica: aria feroce, armi di
ogni genere appese alla cintura, cranio parzialmente rasato, lunghi capelli con
scriminatura centrale, folti baffi e soprattutto una barba lunghissima, quella lang
bart che sembra aver dato il nome all'intero popolo, i Longobardi. Ma sotto
questo aspetto minaccioso si celava una cultura spesso raffinata, evidente nei
gioielli realizzati con grande abilità, vivacizzati da pietre colorate e
lavorati secondo le più complesse tecniche dell’oreficeria.
Basta guardare il corredo della piccola “principessa” di Spilamberto, un
sofisticato scrigno di collane, amuleti, pendenti in oro e perle su cui domina
una fascia ricamata a fili d’oro che ornava la fronte della defunta bambina.
La tomba è una delle 34 sepolture rinvenute nella vastissima area di cava di
Ponte del Rio nei pressi del Panaro, dove precedenti ricerche archeologiche
avevano già documentato l’avvicendamento di insediamenti tra primo Neolitico,
età del Bronzo, età del Ferro ed epoca tardo-romana. Qui, nel 2003, è venuta in
luce una piccola ma straordinaria necropoli d’età longobarda.
Pur essendo ancor sostanzialmente inedita, nel recente Atlante dei Beni
Archeologici della Provincia di Modena (2009) ne è stata ben sottolineata
l’importanza per una migliore conoscenza della presenza longobarda nel
territorio modenese ed emiliano, finora testimoniata da ritrovamenti
complessivamente scarsi e peraltro rappresentati da tombe isolate o da reperti
sporadici.
Che i Longobardi, con alterna fortuna, non abbiano mai rinunciato alla conquista
dell’intera Italia e in particolare della Romania, che tramite Ravenna
rappresentava la chiave per il controllo dell’Adriatico, è ben noto dalle fonti
scritte. Quali fossero poi nelle varie realtà territoriali i rapporti tra
Longobardi e Bizantini, nel corso di due secoli di convivenza e guerra, è
quesito cui solo l’archeologia può rispondere. In special modo in un’area
confinaria quale a lungo fu il corso del Panaro.
La varietà culturale dei reperti, unitamente alla cronologia indubbiamente alta
della necropoli, fa quindi di Spilamberto un luogo nodale per la storia
dell’Emilia Romagna nell’altomedioevo.
Il cimitero constava di appena una trentina di sepolture che, almeno per ora,
sono l’unica traccia, dell’insediamento di un gruppo di modesta entità numerica,
forse una fara (clan) o parte di essa, risalente alle prime generazioni dello
stanziamento longobardo in Italia, nei decenni quindi che intercorrono tra il
570 e gli inizi del VII secolo.
Le tombe, indipendentemente dalla ricchezza dei corredi, erano semplici fosse di
forma rettangolare in alcuni casi rincalzate da ciottoli, ma apparentemente,
senza coperture in laterizi o lastre. In pochi casi sono documentate casse in
legno che potrebbero indicare un più elevato status sociale del defunto. Tutte
le tombe erano orientate est-ovest con cranio ad ovest, come di regola nei
cimiteri di questo periodo e paiono distinte in piccoli gruppi, forse familiari.
Spilamberto (MO), Necropoli Ponte del Rio - Una fase degli scavi archeologici
effettuati nel 2003
Uomini e donne erano sepolti supini, molti con il loro abito quotidiano, di
cui sopravvivono quasi esclusivamente le parti metalliche; spesso nella tomba,
oltre a agli elementi del costume maschile e femminile tradizionale, sono stati
rinvenuti tuttavia anche doni funebri di diverso tipo.
Un
esame preliminare dei reperti ha evidenziato come i guerrieri siano stati
seppelliti con le armi individuali che connotavano il rango dell’uomo libero
quando la popolazione longobarda era ancora stanziata nelle aree pannoniche
(Ungheria) prima della migrazione in Italia nel 568-569.
Sono state ritrovate spathe (spade con larga lama a doppio taglio),
coltelli, fibbie da cintura in bronzo, cuspidi di lancia, punte di freccia e la
parte centrale e sporgente in ferro degli scudi (umbone). Tali manufatti trovano
riscontri molto precisi sia nei contesti funerari ungheresi che nelle numerose
necropoli di primo periodo della vicina Lombardia.
Alla tradizione longobarda extra-italica fanno riferimento anche le ceramiche
che accompagnano indifferentemente sia le deposizioni maschili che femminili.
Generalmente si tratta di bicchieri e di bottiglie, realizzati al tornio lento e
decorati con la tecnica «a stralucido» e «a stampiglia» con motivi geometrici
semplici o compositi.
Del costume tradizionale delle donne longobarde, relativo quindi alla prima
fase di immigrazione, si conserva una fibula (spilla) a «S», composta da due
figure zoomorfe stilizzate e contrapposte, che chiudeva probabilmente il
mantello indossato sopra la tunica. Le fibbie ritrovate nelle tombe sono da
ricondurre invece alle cinture di cuoio, portate da entrambi i sessi, alle quali
venivano fissate strisce di cuoio di varia lunghezza cui erano appesi
coltellini, dischi, perle in vetro ed anche perle semipreziose interpretabili
come amuleti. Fibbie di dimensioni più piccole, sulla base della posizione nel
contesto della sepoltura, possono essere interpretate sia come elementi di
chiusura di borsette in cuoio pure appese alla cintura, che contenevano oggetti
di uso quotidiano per la toilette personale, per cucire o per accendere il
fuoco. Tra i manufatti di uso quotidiano della necropoli figurano infatti anche
acciarini e pettini in osso a dentatura semplice e doppia. I pettini, in altri
casi deposti nelle sepolture per il loro valore apotropaico di protezione del
defunto dagli spiriti maligni, compaiono a Spilamberto solo in sepolture
femminili e potrebbero quindi essere stati inseriti come oggetti personali
piuttosto che per il loro significato magico.
Le numerose collane e braccialetti rinvenuti erano composti da perle multicolori
in pasta vitrea, ambra, ametista e pietre dure, con inserzione di elementi in
oro negli esemplari più ricchi. Un ago crinale in argento che proviene proprio
da una di queste sepolture, può essere considerato come un elemento
complementare del costume e della acconciatura femminile.
Le variazioni della moda avvenute per i contatti con il mondo romano-bizantino
determinarono la sostituzione delle fibule a «S» con una sola fibula a disco. In
una delle tombe femminili, dotata di uno dei corredi di maggiore ricchezza, è
stata infatti ritrovata una eccezionale fibula a disco in argento dorato, poi
trasformata in pendente, ornata da un cammeo in pasta vitrea circondato da perle di
fiume, paste vitree e motivi a filigrana.
Spilamberto (MO) - Sepoltura femminile con corredo di ceramiche
Nella necropoli di Spilamberto le tombe davvero ricche sono poche, e ciò non
sorprende, ma esse contengono oggetti personali e complementi di corredo di
altissimo livello qualitativo.
Infatti sono stati recuperati i filamenti in oro di un tessuto di broccato,
ottenuto tessendo nel velo portato dalla defunta sottili striscioline d’oro.
A qualificare l’alto rango della stessa defunta è la presenza di una sella
plicatilis in ferro (sgabello pieghevole) decorata ad agemina in ottone, con
motivi geometrici e vegetali; un oggetto di grande lusso e tecnologicamente
sofisticato, di cui si conoscono per il periodo ben pochi esempi in tutta
Europa.
Altri raffinati manufatti in vetro (corni potori, bicchieri, coppe e bottiglie)
ed in bronzo fuso di produzione italica e mediterranea (una brocca, una padella,
una lucerna guarnita di catena di sospensione e bossolo bruciaprofumi in
argento) compongono corredi sontuosi e lasciano pensare che tali oggetti fossero
stati prescelti non tanto per il loro valore intrinseco quanto per il
significato simbolico che rivestivano.
Il corno potorio è retaggio di una tradizione assai antica, condivisa anche da
altre popolazioni germaniche, mentre gli oggetti in bronzo delle sepolture
femminili sono manifatture di ambito romano-bizantino che per quanto rare si
ritrovano anche nel territorio modenese (Montale) ma soprattutto nelle grandi
necropoli dell’Italia centrale: Castel Trosino (Ascoli Piceno) e Nocera Umbra
(Perugia).
Spilamberto (MO) - Corno potorio in vetro di età longobarda
Il rinvenimento di questo tipo di bronzi e di un cucchiaio in argento con iscrizione, anch’esso di tradizione romana, costituisce un dato socio-economico e “politico” di grande interesse perché conferma il sussistere di rapporti commerciali (e con ogni probabilità anche personali) permanenti con le aree bizantine, nonostante la continua pressione espansiva dei Longobardi nei confronti della Romania che durerà in sostanza fino alla fine del regno.
Particolare considerazione meritano le tre sepolture equine, tutte acefale.
Nella prima il quadrupede era posto supino, nella seconda era disteso su un
fianco e nella terza la frammentarietà ed il cattivo stato di conservazione
dello scheletro non hanno consentito di stabilire con precisione la sua
posizione post-mortem.
Lo studio osteologico in corso potrà determinare se la dissezione, a livello
della prima vertebra cervicale, sia un fatto casuale oppure corrisponda ad una
pratica rituale osservata e studiata in Italia (Collegno e Sacca di Goito,
Povegliano Veronese), Germania (Donzdorf) ed in Austria (Zeuzleben) in una
casistica abbastanza ampia di inumazioni che comprendevano deposizioni, intere o
parziali, dei cavalli sacrificati in fosse predisposte accanto a quelle dei loro
proprietari.
Questo rituale che si differenzia profondamente da quello nomadico di origine
euro-asiatica, caratterizzato invece dalla inumazione nella medesima tomba del
cavallo e del cavaliere (in Italia è attestato nella necropoli di Campochiaro
nel Molise), nacque nelle aree europee centrali tra III e V secolo e si diffuse
successivamente nei territori estesi ad est del Reno fra le popolazioni
germaniche che comprendevano Franchi orientali, Alemanni, Longobardi e Turingi.
Spilamberto (MO) - Deposizione di equino
Considerata la rilevanza della necropoli di Ponte del Rio nelle vicende
ancora malnote di un periodo cruciale per la formazione dell’identità della
regione, il Comune di Spilamberto e la Soprintendenza per i Beni Archeologici
dell’Emilia Romagna hanno promosso, con il supporto di numerosi enti e
fondazioni un progetto di studio e valorizzazione di questo eccezionale
ritrovamento.
La mostra, allestita dall'11 dicembre 2010 al 25 aprile 2011, è quindi solo il
primo passo di un percorso di ricerca e divulgazione che vede già coinvolta la Langobardia Maior nella collaborazione con la Soprintendenza per i Beni
Archeologici della Lombardia e con la Rete “Langobardia Fertilis” della
provincia di Brescia.
La mostra vede l’esposizione in integro di quattro sepolture particolarmente
significative, raggruppate in una piattaforma centrale unitamente alla
deposizione di un cavallo; a contorno ampie nicchie ospitano spazi tematici
dedicati all’abbigliamento e agli ornamenti, alla cura della persona, alle armi
e al vasellame da tavola. I materiali esposti sono ampiamente commentati e
contestualizzati da un ricco apparato didascalico in larga parte affidato alla
suggestione della grafica ricostruttiva.
I Longobardi a Spilamberto
di Paolo De Vingo
Premesse storico-culturali del percorso espositivo
della mostra "Il tesoro di Spilamberto. Signori Longobardi alla frontiera"
Museo Archeologico di Spilamberto, Spazio Eventi “Liliano Famigli”, da sabato 11
dicembre 2010 a lunedì 25 aprile 2011
Introduzione
Durante il III secolo, l’Impero Romano attraversò una lunga crisi economica,
politica e militare che costrinse l’imperatore Diocleziano ad una drastica
riforma: l’impero fu diviso in due parti (pars orientis e pars occidentis) rette
da due Augusti: ogni Augusto aveva alle sue dipendenze un Cesare, cui era
affidata la parte settentrionale di ognuna delle due metà e destinato a
succedergli. Questo governo con quattro componenti politico-militari prese il
nome di «Tetrarchia», mentre la divisione tra la parte occidentale e quella
orientale, salvo brevi periodi di riunificazione, era destinata a durare fino
alla caduta dell’Impero Romano di Occidente.
Iniziava in questo modo la fase Tardoantica, che si sarebbe in pratica protratta
fino alla calata dei Longobardi. L’Italia, appartenente alla zona meridionale
della pars occidentis, fu affidata a Massimiano, che pose la residenza imperiale
a Milano. Questa civitas romana (già villaggio golasecchiano e poi oppidum
gallico) assunse nel 286 il ruolo di capitale imperiale, sottraendo ad Aquileia
(anch’essa sede frequente della corte imperiale), il primato tra le città
dell’Italia settentrionale. Le mura furono ampliate, fino ad includere il circo
e le terme, mentre una via porticata, lunga 600 metri ed affiancata da botteghe,
lungo il corso attuale di Porta Romana, si dirigeva verso Laus Pompeia, in
direzione di Roma. Fu creata una nuova suddivisione politico-amministrativa
denominata «Italia Annonaria» (comprendente buona parte dell’Italia
centro-settentrionale e delle Rezie) entro la quale si pagava l’annona, tassa
necessaria al mantenimento della corte imperiale e degli eserciti comitatensi e
limitanei. Con Diocleziano l’ingerenza statale nella vita sociale crebbe, con la
creazione di fabricae disciplinate militarmente. Nel IV secolo con Costantino
furono creati dei «collegi» di interesse pubblico, obbligatori ed ereditari,
alimentati con leve di massa. L’importanza di Milano nei secoli tardoromani,
ebbe conseguenze positive anche su Como tanto è vero che nella Notitia
Dignitatum Utriusque Imperii (una sorta di organigramma delle cariche
imperiali), relativa alla pars occidentis, si apprende che agli inizi del V
secolo esisteva a Como un praefectus classis cum curis civitatis, a capo della
flotta militare. Vi erano quattro flotte militari in tutta la penisola italiana:
una ad Aquileia, una a Ravenna (divenuta nel frattempo capitale imperiale), una
a Miseno ed una a Como.
Dopo la morte di Teodosio l’Impero passò ai figli Onorio (pars occidentis) ed
Arcadio (pars orientis) e da allora non si riunificò mai più. L’Impero
d’Oriente, sopravvissuto per un millennio a quello occidentale, sarebbe stato
ribattezzato, in età moderna «Impero bizantino» e «Bizantini» sarebbero stati
chiamati i Romani orientali, aventi per capitale Bisanzio (Costantinopoli).
In seguito allo sfondamento del limes del Reno nel 406 da parte di popolazioni
germaniche incalzate da altre popolazioni nomadi provenienti dalle steppe
asiatiche, fu consentito a queste di stanziarsi nei territori imperiali, in
qualità di foederati, a difesa dei confini imperiali. Lo stesso era già accaduto
in Oriente con i Visigoti, che cercarono poi di penetrare in Occidente. In
Occidente le cariche militari più prestigiose e più importanti erano controllate
da ufficiali non di nascita romana ma diventati tali per il servizio prestato
nell’apparato militare: ricordiamo il vandalo Stilicone che sconfisse i Visigoti
di Alarico a Pollenzo e a Verona: accusato ingiustamente di favorire gli
avversari di Roma, fu fatto uccidere, con il consenso di Onorio, insieme alla
moglie, al figlio e ai militari vandali con le loro famiglie, privando in questo
modo l’Impero di uno dei suoi più validi difensori.
Nel 410 Alarico, viste disattese le sue richieste da parte dell’imperatore
Onorio, marciò su Roma e popolazione in essa rifugiata.
Seguirono altre invasioni (si ricordi in particolare quella degli Unni di Attila,
fermato nel 451 da Ezio ai Campi Catalaunici e l’anno successivo convinto da
papa Leone I a desistere dal marciare su Roma, nonché il sacco di Roma
effettuato dai Vandali di Genserico nel 455), alternatesi ad imperatori non in
grado di capire le reali dimensioni del problema. Nel 475 il magister militum
utriusque militiae Oreste (già segretario di Attila) depose l’imperatore Giulio
Nepote, relegandolo in Dalmazia, e mise sul trono imperiale d’occidente il
proprio figlio adolescente Romolo Augusto detto «Augustolo» per la sua giovane
età. L’anno successivo al rifiuto di Oreste di concedere terre in uso ai
componenti dei reggimenti romano-germanici presenti in Italia, uno dei
comandanti dei foederati in Italia Odoacre, guidando la rivolta, marciò contro
Oreste, lo sconfisse e lo fece decapitare. Quindi depose dal trono Romolo
Augustolo, pagandogli, secondo l’uso germanico, un ricco «guidrigildo» (compenso
in denaro per la persona uccisa) e relegandolo in un esilio dorato presso
Napoli.
Odoacre tuttavia non si proclamò imperatore, ma rimandò le insegne imperiali
all’imperatore d’Oriente Zenone affermando di voler regnare in Italia a nome
dell’Impero, come «re dei barbari e patrizio romano». Questo episodio
apparentemente di poca importanza stabiliva giuridicamente la fine dell’Impero
Romano occidentale, da tempo non più in grado di garantire una uniformità ed un
controllo politico efficace sul territorio e sugli apparati economico-produttivi
ed ormai di fatto limitato alla sola penisola italiana e alla Dalmazia. Infatti
in Africa settentrionale regnavano i Vandali, in Spagna i Visigoti, in Gallia i
Franchi e Burgundi: regni romano-germanici federati all’Impero ma ormai di fatto
indipendenti. Nel 476 (anno che viene convenzionalmente considerato come inizio
del Medioevo) in realtà molto poco era cambiato nella organizzazione civile,
essendo la romanità rimasta praticamente integra: solo con la conquista
longobarda ebbe veramente fine in Italia il periodo antico. Vi era stata semmai
una più accentuata cesura durante il principato di Diocleziano, Costantino e
Teodosio, con il vincolo dei contadini alla terra (preludio alla servitù della
gleba), la creazione di ville rustiche con produzione autarchica e milizie
private (anticipanti certe situazioni feudali, anche se l’economia curtense si
sviluppò solo a partire dalla conquista longobarda), la divisione dell’Impero in
Oriente ed Occidente, il diffondersi del Cristianesimo, tutti i fenomeni che
proiettavano la penisola italiana verso il Medioevo.
1. Le lingue germaniche
Le popolazioni che penetrarono entro i confini imperiali occidentali e ne
influenzarono o comunque ne condivisero il destino, erano in massima parte di
etnia germanica. Relativamente agli aspetti linguistici alcune interessanti
osservazioni possono essere fatte. Nel sostrato indoeuropeo, si incominciò a
delineare, intorno al I secolo a.C., una lingua germanica primitiva
(protogermanico), attraverso fenomeni linguistici tra cui la «prima rotazione
consonantica» (legge di Grimm), che comportava, tra le altre cose, il passaggio
di p, t e k (nelle lingue indoeuropee) a f, th e h (nel protogermanico).
Italiano | Latino | Inglese |
Padre | Pater | Father |
Dieci | Decem | Ten |
Cuore | Cor-Cordis | Heart |
Secondo la linguistica tradizionale, entro il V secolo d.C., il
protogermanico (lingua scomparsa e «ricostruita» dai glottologi, al pari
dell’indoeuropeo) subì una tripartizione. In questo modo ebbero origine:
• Lingue germaniche settentrionali, da cui sarebbero emersi il vichingo e, più
tardi, il danese, lo svedese, il norvegese e l’islandese.
• Lingue germaniche orientali, ormai scomparse, parlate da Visigoti, Ostrogoti,
Burgundi, Vandali, Gepidi, Sciri, Eruli e Rugi.
• Lingue germaniche occidentali, parlate da Angli, Sassoni, Frisi, Franchi,
Bavari, Alamanni e Longobardi.
A loro volta, le lingue germaniche occidentali si suddivisero, intorno al V
secolo d.C. in due gruppi:
• quelle che non subirono la «seconda rotazione consonantica», tra cui il «Basso
Tedesco», le lingue di Angli, Sassoni, Frisi e buona parte dei Franchi, nonché
gli attuali inglese, irlandese ed olandese.
• quelle che subirono la «seconda rotazione consonantica», tra cui «Alto
Tedesco», lingue di Alamanni, Longobardi, Bavari e il tedesco attuale.
Tipico della «seconda rotazione consonantica» è, tra le altre cose, il passaggio
della t a doppia s (quando è compresa tra due vocali) oppure a z (quando si
trova in posizione forte) come nei casi sottoindicati:
Italiano | Inglese | Tedesco |
Acqua | Water | Wasser |
Dieci | Ten | Zehn |
Cuore | Heart | Herz |
Alcune scuole moderne ripartiscono le lingue germaniche in modo diverso e più differenziato, inoltre secondo qualche glottologo, il longobardo andrebbe diversamente collocato dal punto di vista linguistico. Purtroppo la lingua longobarda ci è nota solo per le poche parole giunte sino a noi attraverso testi latini (in particolare giuridici) che contenevano glosse germaniche, per cui non è facile classificarla correttamente. Tutte le lingue germaniche orientali ed anche alcune occidentali scomparvero rapidamente, perché i popoli che le parlavano migrarono in aree fortemente romanizzate (i Visigoti in Spagna ed in Francia meridionale, gli Ostrogoti ed i Longobardi in Italia, i Vandali in Africa settentrionale, i Burgundi in Francia meridionale e nel Vallese), dove iniziarono ad usare il latino. Eccezionalmente la lingua degli Ostrogoti è sopravvissuta fino al XVI secolo in Crimea.
2. La diffusione del Cristianesimo
Dopo secoli di oscillazione tra tolleranza e persecuzioni, con gli editti di
Tessalonica nel 311 e di Milano nel 313, emanati da Costantino e Licinio, il
Cristianesimo veniva accettato ed equiparato alle altre religioni, mentre con
Teodosio nel 380 diventava religione ufficiale dell’Impero: iniziava così la
distruzione sistematica dei luoghi di culto pagani e la diffusione, sempre più
capillare, della nuova dottrina. Il processo appare lento e si assiste anche ad
una certa persistenza dei siti e dei simboli pagani, «esaugurati» a cristiani:
il frequentare gli stessi luoghi ed il trovare una simbologia sarebbe stato più
facilmente accettato dai neoconvertiti. Inoltre vi era anche la necessità di
«esorcizzare» il sito o il simbolo pagano per appropiarsene. La persistenza dei
luoghi di culto su quelli precedenti rispondeva a volte anche ad un principio di
«economia», recuperando materiali o interi edifici alle nuove forme religiose.
Il territorio ecclesiastico era suddiviso in diocesi, amministrate da un vescovo
(episcopus) e corrispondenti ai confini dei precedenti municipia
politico-amministrativi romani. Più diocesi erano «suffraganee» di una sede
«metropolita». Le «metropoli» nell’Italia settentrionale furono inizialmente due
e cioè Milano ed Aquileia, alle quali si aggiunse Ravenna nel V secolo. Alcuni
Metropoliti avrebbero preso in seguito il titolo di «Patriarchi» (Alessandria,
Antiochia, Costantinopoli, Aquileia) mentre solo quello di Roma verrà
denominato, in seguito, «Papa».
3. Le principali eresie dei secoli paleocristiani
La diffusione del Cristianesimo fu accompagnata da interminabili dispute
dottrinali che generarono eresie, scismi e divisioni politico-religiose tra
Romani e popoli germanici. Le questioni vertevano principalmente intorno al
problema trinitario, da cui scaturì l’arianesimo, ed a quello cristologico, che
diede origine allo scisma dei «Tre Capitoli».
Arianesimo
Il prete alessandrino Ario (256-336) aveva diffuso una dottrina che metteva in
dubbio il dogma della consustanzialità, coeternità ed incredibilità del Verbo,
punto essenziale del credo cattolico: per gli ariani, Cristo era una «creatura»
divina, figlio di Dio, ma non consustanziale né coaterno al Padre. Condannata a
Nicea nel 325, l’eresia ariana si era comunque diffusa, sostenuta anche da
alcuni imperatori bizantini. Ambrogio, eletto vescovo di Milano nel 374,
riaffermò il cattolicesimo, combattendo aspramente l’arianesimo. Altrettanto
fecero i vescovi Eusebio di Vercelli e Martino di Tours: Ambrogio, Eusebio e
Martino costituiscono pertanto la cosiddetta «triade antiariana», variamente
rappresentata nella dedicazione di molte chiese altomedievali, mentre lo stesso
Ambrogio è spesso raffigurato con in mano lo staffile a tre corde con cui
«frustava» gli eretici. L’arianesimo, estirpato dall’Impero con il concilio di
Costantinopoli nel 381, persistette tuttavia presso molti popoli germanici,
perché convertiti al Cristianesimo da clero ariano. In Italia sarebbe stato
reintrodotto da Ostrogoti e Longobardi.
Nestorianesimo
La posizione della Chiesa cattolica nei confronti delle nature di Cristo, fin
dai tempi di S.Agostino, era per due nature (umana e divina) racchiuse in una
sola persona: si trattava quindi di un diofisismo moderato. La scuola di
Antiochia, in particolare con Teodoro di Mopsuestia, esasperava la distinzione
tra le due nature. Tale atteggiamento fu portato agli estremi da Nestorio
(epigono di Teodoro e patriarca di Costantinopoli), che prospettava due nature
in due persone distinte (diofisismo estremo): ci sarebbero un Cristo-uomo ed un
Cristo-Dio, per cui la Madonna sarebbe stata madre di Cristo-uomo ma non madre
di Dio. Il Nestorianesimo fu condannato ad Efeso nel 431, dove Nestorio fu
pesantemente ed esageratamente attaccato da Cirillo. La condanna fu ribadita nel
concilio di Calcedonia nel 451. In questa sede, Teodoro di Mopsuestia, Teodoreto
di Ciro e Iba di Edessa (tre teologi della scuola di Antiochia) furono invece
riabilitati dall’accusa di eresia nestoriana: il primo perché «padre» della
chiesa e già morto in comunione con essa, nonostante le sue idee fossero
abbastanza vicine a quelle di Nestorio, gli altri due per aver fatto
progressione di fede ed avere sottoscritto (se pur con riserve) la condanna di
Nestorio, che in altra occasione avevano difeso nella sua disputa con Cirillo.
La loro condanna retroattiva, a distanza di un secolo nel 553, avrebbe scatenato
lo scisma dei «Tre Capitoli».
Monofisismo
Il Monofisismo (eresia opposta a quella nestoriana) minimizzava la natura umana
di Cristo a favore di quella divina ed affondava le sue radici in Apollinare di
Laodicea. Sostenuto dalla Scuola di Alessandria e dall’imperatore d’Oriente, il
monofisismo si radicalizzò in Eutiche (V secolo), sostenendo che alla fine in
Cristo restava solo la natura divina, che assorbiva totalmente quella umana.
Dopo la condanna del Nestorianesimo ad Efeso nel 431, i Monofisiti presero
vigore, fino ad avere il sopravvento nel concilio di Efeso nel 449, in un clima
di violenze. Papa Leone I annullò questo concilio e mandò nel 450 a
Costantinopoli una delegazione della Chiesa occidentale guidata dal vescovo di
Como Abbondio, che gettò le basi dottrinali del concilio di Calcedonia. In
questo concilio, tenutosi nella chiesa di S.Eufemia di Calcedonia nel 451, fu
ribadita la condanna di Nestorio, ma fu condannato anche il Monofisismo.
4. La conquista ostrogota e la riconquista bizantina
Nel 493, sconfitto definitivamente Odoacre, la penisola italiana passò sotto
il dominio degli Ostrogoti di Teodorico, anche se gli storici discutono se
questa operazione si realizzò con o senza l’approvazione delle autorità
orientali. La romanità restò praticamente intatta poiché gli Ostrogoti
lasciarono la gestione della parte amministrativa sotto il controllo romano
assumendo solo quella militare. Teodorico promosse anche la ricostruzione di
acquedotti, strade e palazzi distrutti o non più soggetti ad interventi di
restauro e manutenzione durante la fase finale dell’Impero Romano occidentale.
La cultura, grazie ad uomini come Boezio e Cassiodoro, rifiorì negli scriptoria
di tutta la penisola nei quali si trascrissero importanti testi della cultura
greca e latina. Oltre alle opere religiose, letterarie e filosofiche, ebbero un
ruolo importante anche gli scritti tecnici ed in particolare i trattati di
agrimensura, a convalida dell’attenzione posta da Teodorico al problema agrario,
che in età tardoantica era degenerato nel latifondo improduttivo. Esisteva anche
una cultura ostrogota, come testimonia la trascrizione della bibbia di Wulfila,
eseguita probabilmente a Brescia o a Ravenna, nel cosiddetto Codex Argenteus
conservato adesso in Svezia: le lettere in argento dell’alfabeto gotico
(derivato da quello greco, con aggiunte di caratteri latini e runici) risaltano
su di un fondo color porpora. Non mancarono i contrasti religiosi: gli Ostrogoti
erano ariani, mentre i Romani erano cattolici. Tuttavia Teodorico instaurò una
oculata politica di coesistenza e di separazione nello stesso tempo, promuovendo
la costruzione di edifici religiosi per entrambe le confessioni, che erano
comunque cristiane.
Dopo la morte di Teodorico nel 526, regnò di fatto la figlia di Amalasunta, a
nome del figlio minorenne Atalarico, proseguendo una politica filo-romana e
filo-bizantina. Rimasta vedova del primo marito, il visigoto Eutarico Cillica,
Amalasunta sposò il cugino Teodato, proprietario latifondista e sostenitore
della fazione filo germanica, che la fece poi imprigionare in un’isola del lago
di Bolsena e quindi strangolare. Questo episodio fornì il pretesto alle autorità
imperiali orientali per intervenire in Italia, con una spedizione militare
preparata da tempo. Così i Bizantini occuparono la penisola italiana alla fine
di una guerra sanguinosissima durata dal 535 al 555, che vide, tra gli altri
efferati episodi causati da entrambi i contendenti, la distruzione di Milano nel
539 per mano dei mercenari burgundi guidati da Uraia, in seguito il passaggio
della città sotto il controllo dei Bizantini, che la lasciarono al saccheggio
nemico in cambio di una sicura ritirata.
Dopo la fine della prima fase della spedizione militare guidata da Belisario e
la sconfitta del re ostrogoto Vitige nel 540, vi fu una ripresa delle fortune
gote con Baduela soprannominato Totila cioè «Immortale» che riconquistò quasi
tutta la penisola. Fu alla fine però sconfitto dall’esercito bizantino guidato
da Narsete a Tagina (attuale Gualdo Tadino) nel 552, morendo per le ferite
riportate in battaglia. Anche il successore Teia fu annientato dai Bizantini
l’anno successivo presso il Monte Lattaro (Napoli) ed ucciso mentre nel 555
cadde anche l’ultimo caposaldo ostrogoto nei pressi di Napoli. Anche la seconda
fase della campagna militare bizantina poteva dirsi conclusa e la penisola
italiana riportata sotto il controllo delle autorità orientali.
Con la riconquista bizantina e la promulgazione della Pragmatica Sanctio,
vennero annullate le timide riforme operate dagli Ostrogoti e reintegrati i
proprietari latifondisti romani, fu ripristinata la servitù della gleba
consistente nel vincolo dei contadini alla terra ed avente le sue radici in età
tardoantica ed in particolare nelle disposizioni emanate da Diocleziano e
Costantino. Inoltre il pesante fiscalismo promosso dai Bizantini e la posizione
periferica del territorio italiano rispetto a Costantinopoli non contribuirono
certo ad una ripresa efficace dopo le distruzioni e le epidemie dovute alla
guerra greco-gotica. Anche il centro della latinità, si spostò dall’Italia a
Bisanzio, iniziando un processo di trasformazione culturale che avrebbe avuto il
suo epigono con la conquista longobarda. Come nei secoli tardoantichi anche in
quelli bizantini il mondo giuridico era dominato dal Codex Theodosianus
(compendio di diritto romano), in quanto il Corpus Juris Civilis introdotto in
occidente da Giustiniano, non ebbe tempo di essere acquisito ed utilizzato e
sarebbe stato recuperato solo dai giuristi bolognesi nel XI-XII secolo.
Non mancarono anche in questo periodo i dissidi religiosi: sotto l’influsso
della moglie Teodora e di elementi monofisiti della corte imperiale, Giustiniano
condanno per decreto nel 544 i tre teologi antiocheni (Teodoro di Mopsuestia,
Teodereto di Ciro ed Iba di Edessa), accusati retroattivamente di
nestorianesimo. Infine nel 548 Giustiniano obbligò il papa Vigilio a convalidare
la condanna con uno judicatum. Forse inizialmente furono indicati con i termini
di «Tre Capitoli» i tre anatemismi utilizzati per la condanna, tuttavia già
pochissimi anni dopo –e sicuramente nel 553– le due parole «Tre Capitoli»
stavano ad indicare direttamente i tre teologi condannati, nonché i loro
scritti. Per questo, con «Tre Capitoli» si deve intendere il soggetto della
condanna ed è questo il significato dato a tale termine da tutta la storiografia
anche moderna, salvo rare eccezioni.
Nel concilio di Costantinopoli del 553, questa condanna fu ufficializzata, con
il consenso di papa Vigilio, sotto forte pressione bizantina: le sedi
metropolite di Milano e di Aquileia, riconoscendo in questa circostanza una
intromissione imperiale ed uno attacco al precedente concilio di Calcedonia (che
aveva assolto i tre teologi in questione), si ribellarono dando origine allo
scisma detto appunto dei «Tre Capitoli», che sarebbe durato (almeno per la parte
italiana nord-orientale) fino alla fine del VII secolo e che, in età longobarda,
avrebbe determinato il distacco della diocesi di Como da Milano e promosso il
suo millenario legame con il patriarcato di Aquileia.
5. La conquista longobarda
Buona
parte delle notizie sui Longobardi provengono dalla Historia Langobardorum
scritta verso la fine del secolo VIII da Paolo di Varnefrido (meglio conosciuto
come Paolo Diacono), che a sua volta attinse anche da opere precedenti, come la
Origo Gentis Langobardorum (inserita come premessa dell’Editto di Rotari), la
Historia Francorum di Gregorio di Tours o la Historia de Langobardorum gestis di
Secondo di Non, ora scomparsa. Fonti molto utili sono il testo legislativo
conosciuto come Editto di Rotari, le successive leggi di Liutprando e Astolfo,
mentre a partire dal secolo VIII, anche i documenti privati o i diplomi regi
rivestivano una notevole importanza nello studio di questo popolo. Decisivo
comunque è stato il contributo fornito dall’archeologia, cui finalmente è stato
riconosciuto un ruolo di primo piano nel fornire dati oggettivi: non solo
reperti scavati (tombe, insediamenti e chiese), ma anche monumenti conservati
ancora in alzato, analizzati con severi criteri stratigrafici, onde stabilirne
le successive fasi costruttive.
Paolo Diacono afferma che i Longobardi provenivano dalla Scandinavia e le prime
testimonianze attendibili del loro passaggio si trovano comunque nel bacino
dell’Elba. Più tardi, intorno, al V secolo, si spostarono verso il Danubio,
soggiornando nella zona di Vienna. Poi, agli inizi del VI secolo, si spostarono
in Pannonia (Ungheria), utilizzati anche dall’imperatore d’Oriente Giustiniano
in Italia quali mercenari contro i Goti di Totila. In queste zone romanizzate ed
attraverso la mediazione con popolazioni germaniche più evolute nonché con i
Bizantini, i Longobardi incominciarono un lento processo di «acculturazione»,
che sarebbe culminato con il loro lungo soggiorno in Italia.
La società longobarda era divisa in tre classi: gli arimanni (uomini liberi che
potevano portare le armi), gli aldii (semiliberi spesso reclutati tra le
popolazioni sottomesse, con una personalità giuridica non completa) ed infine i
servi (la cui posizione era tuttavia leggermente migliore rispetto a quella
degli schiavi romani). Fisicamente la popolazione era raggruppata in farae,
unità mobili di spostamento ed occupazione del territorio, che in caso di
necessità, potevano fornire uomini per creare un exercitus. Le farae erano
formate da individui legati da vincoli di parentela, con la loro scorta di
donne, bambini, aldii e servi. Le necropoli della Pannonia sembrano confermare
questa composizione sociale, che prevedeva la presenza di nuclei demografici
composti da circa 80-100 persone. Più farae erano aggregate ad un duca, il quale
a sua volta aveva un vincolo di fedeltà (non sempre rispettato) nei confronti
del re.
Nel 568 i Longobardi, guidati da Alboino, penetrarono nelle aree dell’Italia
nord-orientale e fondarono immediatamente il ducato del Friuli, con capitale
Forum Julii (Cividale). In pochi anni dilagarono per tutta la penisola, con la
sola esclusione del territorio ligure, delle isole, delle aree meridionali,
nonché della dorsale appenninica che univa Ravenna al Lazio. Questa fascia
territoriale sotto il controllo bizantino avrebbe separato la Langobardia Maior
(Neustria, Austrasia e Tuscia, al Nord) dalla Langobardia Minor (ducati di
Spoleto e Benevento, al Sud) fino alla fine del regno longobardo.
Terminata la fase migratoria, la territorializzazione delle farae portò alla
formazione delle «arimannie» o «faramannie»: territori rurali gestiti da
arimanni, che ne curavano l’aspetto militare e civile (gestione delle risorse
economiche e produttive). Le sedi arimanniche coincidevano spesso con vecchi
castra tardoantichi o con sedi plebane. Nonostante i duchi vivessero in città
insieme ai gastaldi (che ne curavano i beni di diretta pertinenza della Corona),
sfruttando i palazzi già esistenti, la società longobarda appare fortemente
ruralizzata: l’archeologia urbana mostra come interi quartieri cittadini furono
trasformati in aree agricole o adibiti all’allevamento del bestiame, mentre sui
pavimenti delle ville romane abbandonate venivano costruite semplici capanne con
o senza basamento in pietra. Con la fase di invasione ed il successivo
interregno tra Clefi ed Autari, vi fu l’espropriazione (spesso anche violenta)
della grande proprietà terriera, mentre ai coltivatori fu semplicemente imposto
il tributo della tertia, secondo le antiche regole della hospitalitas romana:
gli indigeni dovevano consegnare un terzo del raccolto agli occupanti. In
campagna si svilupparono le curtes, entità agricole quasi autosufficienti,
mentre le derrate raccolte venivano ammassate in un’area denominata «sala», in
seguito coperta e facente parte del palazzo.
Quando i Longobardi giunsero in Italia, ufficialmente erano cristiani di fede
ariana, anche se la maggior parte della popolazione era praticamente pagana,
dedita a culti primitivi. Successivamente non mancarono sovrani cattolici, che
operarono nel senso di una progressiva integrazione con l’elemento romano
indigeno, al contrario dei re ariani che portarono avanti una politica
prevalentemente filogermanica. Alla fine del VII secolo, con la vittoria di
Cuniperto su Alachis presso Coronate (Cornate d’Adda), il cattolicesimo avrebbe
preso progressivamente il totale e definitivo sopravvento.
Fino alla fine del VII secolo i Longobardi mantennero tuttavia la consuetudine
«pagana» di seppellire i morti di classe elevata con un ricco corredo. Gli
arimanni venivano sepolti con le armi: spada, lancia, scudo (di cui si sono
conservati solo gli umboni), scramasax (coltello da combattimento ad un solo
taglio), crocette auree. Le tombe dei guerrieri di rango più elevato potevano
contenere scudi da parata (come quelli di Lucca, Pisa, Stabio) dei quali restano
solo le guarnizioni in rame dorato, elmi o corazze laminate di tipo bizantino.
Le donne indossavano oggetti tipici del costume germanico: fibule a «S», fibule
ad arco in rame dorato o in ferro con decorazioni animalistiche stilizzate, a
volte il coltello da «tessitura» (usato per sbrogliare i fili del telaio),
pettini in osso, amuleti e piccoli coltelli. Nelle tombe romanizzate compaiono
spesso elementi di tradizione romano-bizantina, come le fibule «animalistiche»
oppure a disco, gli anelli e gli orecchini a cestello in oro filigranato. Nelle
tombe longobarde più antiche nella penisola italiana, sia maschili che
femminili, si sono rinvenuti anche vasi in ceramica decorati a «stampiglia», di
derivazione pannonica. Interessante la testimonianza trasmessaci da Paolo
Diacono in base alla quale quando un arimanno moriva lontano dal proprio paese
di origine, nel cimitero longobardo locale si piantava una pertica con una
colomba in legno posta alla sommità e rivolta verso il luogo remoto ove giaceva
il defunto. Con il secolo VIII, la forte cristianizzazione, accompagnata dalla
definitiva conversione al cattolicesimo, fece scomparire di fatto i corredi
tombali.
Bibliografia ragionata
Allo stato attuale il solo volume pubblicato sui Longobardi, inteso come
inquadramento storico-archeologico di un popolo germanico, è quello che indico
qui di seguito. Si tratta di una buona edizione italiana di un testo inglese e
costituisce il solo testo di riferimento sulle vicende dei Longobardi, dalle
origini fino alla seconda metà del secolo VIII, considerate in una prospettiva
unitaria.
N.CHRISTIE, I Longobardi. Storia e archeologia di un popolo, Genova, 1995.
La bibliografia che riguarda origini e migrazione della popolazione longobarda,
i suoi usi e costumi, le attività economiche e produttive, le forme insediative,
i contesti sepolcrali e le forme della organizzazione dello Stato longobardo in
Italia è molto complessa e dettagliata. Occorre anche considerare che esiste una
profonda diversificazione in tutti gli aspetti precedentemente indicati tra la
fase della conquista della penisola italiana e quella successiva di
stabilizzazione e di formazione del Regnun Langobardorum. Nonostante i materiali
della necropoli di Spilamberto sono compatibili con la cultura longobarda della
fase pannonica, poiché gli articoli che riguardano questo periodo insediativo
sono pubblicati in tedesco, in ungherese o in sloveno, si è preferito inserire
in questa nota bibliografia solo i contributi pubblicati in italiano che però
riguardano gli anni intorno al 568 o quelli immediatamente successivi.
Struttura e caratteristiche dello Stato longobardo in Italia
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