Nel
1976 gli archeologi Giovanni Uggeri e Stella Patitucci Uggeri portarono alla
luce nelle Valli di Comacchio i resti di un grosso basamenti di laterizi
sesquipedali che si conservava per quasi 2 metri di altezza e aveva la forma di
un quadrato di m 7,42 di lato. Il rinvenimento avvenne all’imbocco dell’Argine
di Agosta, che potrebbe derivare il nome dall’antica Fossa Augusta, il canale
artificiale fatto scavare da Augusto per collegare il porto di Ravenna a uno dei
rami del Po.
Per questo si propose di interpretare il basamento come quello di una torre-faro
lungo il percorso della Fossa.
Nell'agosto 2015 gli archeologi della Soprintendenza Archeologia
dell’Emilia-Romagna, diretti dal funzionario Mario Cesarano, hanno riaperto il
vecchio scavo al fine di realizzarne una documentazione con le metodologie e
tecnologie più aggiornate. L’allargamento dell’area di scavo ha messo in luce
una piattaforma, realizzata anch’essa con mattoni, che permette di definire un
lato principale del monumento, rivolto ad est, proprio dove doveva passare il
corso d’acqua.
Data l’instabilità del terreno, la nuova struttura poggia su una stratificata
piattaforma di legno. L’osservazione della stratigrafia permette di ricostruire
una serie di alluvioni, che devono aver ricoperto i ruderi ormai in rovina,
crollati durante l’età tardo-antica.
In particolare, la nuova piattaforma si è presentata coperta dal crollo dei
mattoni della prima più imponente struttura e da diverse lastre e blocchi di
pietra che recano i solchi delle ormai perdute grappe di piombo che dovevano
tenerle insieme.
Uno dei blocchi è integro e di forma parallelepipeda; pesa quasi due tonnellate e reca una decorazione a rilievo su tre dei quattro lati. La faccia principale presenta nelle estremità superiori due bucrani scarnificati dai quali pendono festoni che sorreggono una ghirlanda sormontata da una patera ombelicata; le due facce laterali sono decorate con corone di alloro.
In attesa dei lavori di pulitura e restauro propedeutici allo studio, una prima
osservazione suggerisce una datazione alla piena età giulio-claudia. La
decorazione riprende i temi canonici della propaganda imperiale, concentrata sul
ripristino degli aviti costumi religiosi dei Romani, sintetizzati dal rito del
sacrificio, a cui rimandano i bucrani e la patera.
Fino ad ora un unico frammento di marmo reca quel che rimane di un’iscrizione
con la sola lettera “C”. Frammenti di ceramica sono stati recuperati nello
strato alluvionale che ricopriva tutti i resti e collocano l’evento catastrofico
nel pieno V sec. d.C.
I blocchi di pietra saranno restaurati e destinati al nascendo museo di
Comacchio, per il quale si prevede l’apertura entro la fine del prossimo anno,
con sezioni dall’età del Bronzo a quella medievale.