Ogni reperto ha una storia da raccontare e sarebbe impossibile, inutile
e riduttivo provare a elencarle tutte.
In questa pagina puntiamo un fascio di luce su alcuni manufatti
particolarmente suggestivi e significativi esposti nel museo sperando che vi invoglino a venirli a vedere di
persona...
Il
coperchio di pisside in avorio
Rinvenuto in numerosi pezzi nella parte più profonda del
pozzo della plateia D, questo raro manufatto rappresenta una delle più importanti testimonianze di
artigianato artistico restituite dalla città. Realizzato a intaglio utilizzando
una sezione di zanna di elefante, è ottenuto dalla giustapposizione a incastro
di almeno cinque parti lavorate separatamente.
Il coperchio di pisside e la ricostruzione grafica della sua decorazione
plastica
Il coperchio rappresenta a tutto tondo un gruppo unitario, composto da un carro a due
ruote tirato da una pariglia di cavalli affiancati su due lati da due grossi
felini. A cassetta sta il protagonista della scena, che guida il carro, mentre due
uomini nudi, posti specularmente a fianco di ciascun cavallo, tengono un braccio sul collo
dell'equino mentre con l’altra mano reggono per il collare la fiera.
Leoni e cavalli sono resi in modo molto naturalistico, mentre le singolari
figure antropomorfe che li conducono hanno volti fortemente prognati e figure
spiccatamente scimmiesche.
Il conducente della biga, disarmato, si erge da solo
sul carro in un atteggiamento evidentemente celebrativo.
Il gruppo doveva avere una precisa chiave di lettura che è quella della sfilata
trionfale di un esponente della classe aristocratica, impegnato a manifestare la
preminenza del suo rango nell’esercizio di una caccia reale. I due leoni
rappresenterebbero le prede reali cacciate, domate, ma ancora recalcitranti, che
enfatizzano il trionfo dell’auriga.
Manufatto sicuramente d'importazione, prodotto più probabilmente in area
fiorentina o chiusina fra 620 e 580 a.C., giunge in Etruria Padana portando un
messaggio figurativo evoluto, che rende a tutto tondo una complessa scena di
processione rituale.
La datazione del pezzo, molto più antica rispetto a quella dell’impianto urbano
di V secolo, dà adito a due possibili interpretazioni: il coperchio potrebbe
essere stato portato a Marzabotto già come un cimelio che qualcuno deteneva da
oltre un secolo, ma non si può nemmeno escludere che questo prodotto di alto
artigianato sia il relitto di una fase tardo Orientalizzante della città, che la
ricerca archeologica non ha ancora individuato con evidenza.
La
testa di Kouros
Realizzata in marmo greco proveniente dall’isola di Paros,
la testa apparteneva a una statua alta circa 110 cm che
raffigurava un kouros, una giovane figura maschile in piedi.
Il volto
pieno, caratterizzato da occhi allungati, zigomi prominenti e dal
cosiddetto sorriso arcaico, è contornato da un’acconciatura a calotta
compatta a file di piccoli riccioli.
Rinvenuta in passato nelle immediate vicinanze dell’area in cui
recentemente è stato scoperto il grande tempio urbano dedicato a Tinia,
la testa deve essere certamente collegata a questo edificio come offerta
alla divinità.
L’ottimo stato di conservazione e l’assenza del foro per
il “menisco” (l’appendice in ferro che impediva agli uccelli di posarsi
sulla testa delle statue all’aperto) suggeriscono che la statua votiva
fosse collocata in origine al chiuso.
Tradizionalmente ritenuta prodotto
greco di matrice ionica e inquadrabile nella produzione artistica tardo
arcaica della fine del VI sec. a.C., studi più recenti hanno ipotizzato una
sua attribuzione a un'officina locale, forse stimolata dalla presenza
di artigiani greci in Etruria Padana.
La "Signora" di Marzabotto
Il ritrovamento più rilevante degli scavi condotti dal 2002 al 2005
nell'area sacra a nord-est dell'antica Kainua è certamente una statuetta
femminile facente parte di un complesso di offerte votive in bronzo. La
giacitura in cui è stata recuperata, singolarmente orizzontale e supina,
lascia aperta la possibilità di una deposizione intenzionale del
prezioso votivo.
Donna o Dea? Per valutare questa statuetta occorre considerarla nel
contesto del suo rinvenimento, una vasta area santuariale ai margini
della città etrusca in cui il santuario della Terza Stipe (certamente in
rapporto con il cosiddetto Santuario Fontile rinvenuto negli anni '70)
doveva stagliarsi con particolare evidenza monumentale. L'altare
(ricostruibile per tipologia, dimensioni e orientamento) doveva essere
arricchito da oltre 30 fra cippi e basi, di diversificata tipologia, in
massima parte destinati a sorreggere votivi in bronzo ma anche in marmo.
La maggior parte di questi cippi, dotati di foro di infissione o di
incasso per grappe, quando non addirittura dei residui delle appendici
in bronzo della statuetta, era destinato a sorreggere votivi in bronzo
anche se non possiamo escludere anche offerte di altro tipo, comprese
quelle in materiale deperibile. Il santuario della Terza Stipe è dunque
caratterizzato in modo marcato dalla presenza di basi votive che, in
ambito etrusco, sembrano specificità di luoghi sacri extraurbani più che
dei templi veri e propri.
Sebbene la Signora della Terza Stipe non sia stata trovata infissa, la
colata di piombo presente ai suoi piedi rende certi della sua originaria
infissione mentre il perfetto stato di conservazione delle sue superfici
fa supporre che fosse collocata al coperto. Depone a favore di questa
tesi la grande quantità di frammenti di coppi e tegole, indizio che sul
posto esistessero strutture tipo sacelli o edicole dotate di copertura.
Statuetta in bronzo raffigurante una donna che tiene in mano un fiore di
loto (Foto Roberto Macrì)
Il posizionamento della statuetta sopra una base e dentro un sacello ha
suggerito inizialmente l'idea di una divinità, un’interpretazione che
pareva supportata anche da altri fattori quali
a) l'eccezionalità del pezzo rispetto agli usuali votivi, che denota la
volontà di distinguersi o comunque distinguere il dono, con ogni
evidenza punto focale della ritualità del sito
b) il suo ergersi sopra una base, al pari delle tante statue di cui si
ha documentazione sia oggettiva che in immagine nel mondo greco ma anche
etrusco
c) l'evidente eccellenza dell'opera, nella quale la stessa quantità di
metallo impiegato rappresenta di per sé un notevole sacrificio economico
per il dedicante.
Rimanendo all’ipotesi di un'interpretazione divina della statuetta, era
parsa verosimile la sua identificazione con Turan, l'Afrodite etrusca,
sia per la presenza del fiore di loto, tradizionalmente ritenuto uno
degli attributi della dea, sia perché, come riporta Vitruvio, i santuari
collocati fuori dall'area urbana erano dedicati ad Afrodite, in caso di
divinità femminile, e a Marte-Laran o Vulcano, nel caso di divinità
maschili.
Sulla questione mancava comunque una vera certezza. L'indubbio carisma
di un'immagine femminile la cui bellezza fisica, struttura armonica e
portamento regale sono accresciute dalla ricchezza di un abbigliamento
sofisticato, sia delle vesti che dei gioielli che dell'acconciatura, ha
dato spazio a un’ulteriore serie di considerazioni.
Nella statuaria etrusca, le figure femminili sono costantemente presenti
in atteggiamenti e abbigliamenti "funzionali" a rappresentare il rango e
lo status della famiglia di appartenenza. Che le statuette siano simboli
del prestigio della famiglia è suffragato dal fatto che nello stesso
santuario, a Marzabotto come altrove, trovino posto statuette sia
maschili che femminili, espressione dell'eterogeneità dei dedicanti.
Ciò porterebbe ad accreditare la Signora di Marzabotto alla sfera umana,
visto che la figura di una dama di rango parrebbe il dono di massimo
prestigio da offrire alla divinità del luogo. Un elemento sostanziale a
favore dell'interpretazione umana della figura femminile potrebbe essere
lo stesso gesto che caratterizza la "signora", immortalata nell’atto di
raccogliere la veste come le aristocratiche fanciulle dell'Acropoli che
sollevano con eleganza i lunghi chitoni, in una movenza che ancora oggi
è segno evidente di riverenza e omaggio.
Se questa interpretazione fosse vera, la signora di Marzabotto
metterebbe dunque in scena una protagonista dell'aristocrazia locale
che, all'inizio della fase urbano-classica della città, si
autorappresenta secondo i modelli colti che giungono direttamente dalla
Grecia, sia per quanto riguarda lo stile che l'iconografia. La statuetta
di Marzabotto si rifarebbe direttamente alle fanciulle dell'Acropoli,
pur traducendo in etrusco i suggerimenti provenienti dal mondo ellenico.
Il bronzetto infatti non proviene dalla Magna Grecia o dalla Grecia
propria ma è da considerarsi di produzione locale. L’officina da cui è
uscito reinterpretava autonomamente le profonde influenze greche a
cominciare dai segni distintivi del rango: così l'himation si
trasforma in tebenna, i sandali diventano calcei repandi, prova
incontestabile dell'originalità, alterità e autonomia culturale del
centro etrusco.
Questa officina non era un semplice recettore ma un vero e proprio
centro di elaborazione dei modelli greci. Se esiste la concreta
possibilità di un'officina dedicata alla produzione bronzistica a nord
degli Appennini attorno al 500 a.C., Marzabotto è l'unico centro in cui
un'officina di questo tipo è attestata con certezza ed è possibile che
l'officina di Kainua servisse un ambito territoriale più esteso rispetto
alla città o che la sua produzione bronzistica rientrasse in una
“lingua” comune più ampia.
da La signora di Marzabotto. Influenze elleniche nella bronzistica
dell'Etruria padana, Paola Desantis, Luigi Malnati. 2012
Marzabotto (Bologna) - Museo Nazionale Etrusco "Pompeo
Aria" e area archeologica dell'antica città di Kainua
Via Porrettana Sud n. 13
info 051 932353
sba-ero.museonazionaletrusco@beniculturali.it
informazioni scientifiche di
Paola Desantis
editing di
Carla Conti