Ushabti

Il termine ushabti, ovvero “colui che risponde” (dal verbo usheb, “rispondere”), indica una categoria di statuette funerarie che gli Egiziani collocavano nelle tombe dal Medio Regno sino all’epoca Tolemaica. Da uno o più esemplari per corredo funerario, il loro numero aumenta nel tempo fino a raggiungere le molte centinaia di esemplari. Nei corredi funerari del Nuovo Regno gli ushabti possono essere anche deposte all'interno di cofanetti in legno dipinto, che imitano nella forma le antiche cappelle arcaiche (per-nu) del Basso Egitto, edifici rettangolari dal tetto bombato.
Le statuette venivano animate magicamente grazie al capitolo VI del Libro dei Morti, che portavano, quasi sempre, iscritto o inciso sul corpo: “O ushabti! se io sarò chiamato, e se io sarò numerato per eseguire ogni sorta di lavori che sono eseguiti nel mondo sotterraneo… e sarò numerato in qualunque tempo per fare prosperare i campi, per irrigare le rive, per trasportare le sabbie dall’oriente ad occidente, “eccomi”, dici tu allora”. (BOTTI 1964, p. 90).
L’ushabti può così contribuire alla sopravvivenza eterna del defunto, sostituendolo nei lavori agricolo dell’oltretomba e utilizzando a tale scopo gli strumenti agricoli, la zappa e l’aratro, che stringe nelle mani e il sacchetto per le sementi che tiene sulla schiena.

Nel 1817 Giovanni Battista Belzoni trovò nell’ultima camera dell’ipogeo di Sety I (KV 17) nella Valle dei Re, a Tebe, centinaia di statuette ushabti, molto varie per materiale, tecnica e stile di esecuzione, tali ushabti ora arricchiscono collezioni egiziane grandi e piccole di tutto il mondo. La maggior parte delle statuette, tra cui i quattro esemplari conservati al Museo Archeologico Nazionale di Parma, è in legno e conserva traccia di una sostanza resinosa di colore nero che le ricopriva interamente, identificandole con il dio dell’oltretomba e della fertilità Osiride.